Pierluigi Battista, Corriere della Sera 04/01/2011, 4 gennaio 2011
IL GRANDE ORECCHIO DELLA POLITICA
La piccola cimice scoperta nella casa di un ministro è anche un grande ritorno all’antico. Un balzo all’indietro tecnologico nell’evoluzione dello spionaggio politico. Il Novecento più del Duemila. La lugubre invasività da Muro di Berlino delle Vite degli altri invece dell’incubo avveniristico e postmoderno di Minority Report.
Bossi, insieme creatura e artefice della Seconda Repubblica, sarebbe stato spiato secondo le metodologie dei vecchi tempi. Intreccio di vecchio e di nuovo che ebbe plastico riscontro nell’immagine di Berlusconi nell’atto di mostrare una gigantesca cimice (poi ribattezzata «il cimicione» ) che avrebbe violato la sua residenza, prova provata del cupo regime di polizia che la sinistra avrebbe approntato se un solido argine liberale non ne avesse frustrato i torbidi disegni. La Seconda Repubblica è costellata di questi improvvisi e spiazzanti ritorni al passato. Una registrazione sconclusionata nel frastuono di un bar non lontano dal Palazzo di Giustizia di Roma fu nel ’ 96 il marchio grottesco di un’inchiesta giudiziaria che, passando per Cesare Previti e il giudice Squillante, costituì uno dei macigni più pericolosi lungo il percorso politico di Silvio Berlusconi. Tracce di antico nel moderno. Tecnologie obsolete che altrove sono state già soppiantate da strumenti più sofisticati, più intrusivi, più devastanti della vita privata. Sono anni che il Grande Orecchio irrompe nella politica attraverso le intercettazioni telefoniche. Nel magazzino di Gioacchino Genchi sono passate milioni di record riguardanti tabulati telefonici (non proprio intercettazioni dunque) della classe dirigente, tra cui innumerevoli utenze di persone non indagate. Altro che cimici. Contatti, chiamate, frequenza delle conversazioni, luoghi e durata delle chiacchiere al telefono sono state informaticamente annotate per gravare come una nube di panico per chi, politico o non, vedeva distrutto e violato, in modo perfettamente legale beninteso, l’ambito della propria riservatezza. Con le intercettazioni a strascico, che finiscono ai giornali prima ancora che all’attenzione degli interessati, migliaia e migliaia di trascrizioni setacciano parole, borbottii e nefandezze stilistiche in una fase istruttoria ancora molto primitiva, ma sufficiente per distruggere privacy e reputazione. Oramai, dice la leggenda, in Italia politici, imprenditori, gente nota e meno nota, scelgono la pubblica piazza, a telefonino spento, per dirsi cose che potrebbero essere scaraventate nell’arena pubblica. Magari è un’esagerazione. Oppure è una citazione di ciò che accadeva in Unione Sovietica e nell’Europa comunista quando gli sgherri della Gpu o del Kgb o della Stasi infestavano abitazioni private e locali pubblici di spie e di aggeggi pronti a captare ogni sussurro di chi veniva controllato da un onnipotente Stato di polizia. Basta leggere l’opera omnia di Milan Kundera per rendersi conto di che incubo fosse. La cimice che avrebbe spiato Bossi è un arretramento tecnologico che registra però questo clima di sospetto e di paura. Chi spia chi? E perché? Cosa faceva il team della security Telecom accumulando dati su dati rovistando tra le mail dei malcapitati? E cosa avvenne esattamente nella storia in cui Alessandra Mussolini accusò l’allora governatore del Lazio Francesco Storace di aver messo su un apparato spionistico ai suoi danni? E che giro strano, tra società offshore e paradisi fiscali come l’isola di Santa Lucia, si è messo in moto per indagare, ispezionare, scrutare, spiare ogni movimento riguardasse il cognato di Gianfranco Fini, all’apice della battaglia giornalistica sulla celeberrima casa di Montecarlo? Il dossieraggio moderno, rende in effetti la cimice uno strumento pateticamente retrò. Soffiate, spifferate, campagne mediatiche dispongono oramai di un armamentario audio e video pressoché invincibile. Altro che cimici, appunto. Il caso Marrazzo ha dimostrato che gli strumenti per far inciampare un politico nella propria ricattabilità sono spietati. In tutto il mondo. Ma in Italia di più. In Francia lo scontro tra Sarkozy e De Villepin è finito a colpi (bassi) di dossier. E politici finiti nella rete del gossip, dell’imprudenza, della leggerezza, della debolezza delle persone ce ne sono in abbondanza. Ma chissà perché, in Italia si aggiunge a tutto questo qualcosa di ulteriormente losco. E la mascalzonata, frutto di qualche soffiata proibita, assume un sapore ancora più cialtrone. E fanno quasi nostalgia quei vecchi modi di distruggere l’avversario che affiorarono con i dossier del Sifar, e con tutto il tramestio di spiate assassine che rendevano irrespirabile l’atmosfera politica che sfociò nel cuore degli anni Sessanta nel caso del Piano Solo preparato dal generale De Lorenzo dettagliatamente ricostruito in un libro recente da Mimmo Franzinelli. Ma la nostalgia mette un velo su una storia feroce. Di lì a poco la stagione dello stragismo politico getterà una luce tremenda sull’intreccio di segreti e spionaggio che ha ammorbato la politica italiana e che Francesco Cossiga, un uomo come è noto morbosamente interessato a tutte le diavolerie tecnologiche di comunicazione e intrusione nella vita privata delle persone pubbliche, ha più volte rievocato tragicamente nelle sue memorie. Cimici e barbe finte, dossier e interferenze. Una storia italiana che non finisce mai e che non riesce nemmeno ad avere la grandezza di un Le Carré o di un Graham Greene. Una storia italiana. E ora anche padana.
Pierluigi Battista