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 2011  gennaio 04 Martedì calendario

DA SCILIPOTI A BOSSI, I TANTI EREDI DI CETTO IL DISINTEGRATORE

Nuotando tra le onde anomale dell’ironia, il nipote dell’erudito Ceccarius ha ereditato dal parente (divorato dalla passione per la storia di Roma) la maniacalità. Una casa di Trastevere, figli adolescenti in libera circolazione, centinaia di fascicoli ordinati in sezioni e sopra ogni cartellina, un nome. Filippo Ceccarelli, cuspide del ’55, giornalista di Repubblica è tra gli archivisti prìncipi della nostra contemporaneità. Tra città immaginarie, memoria e rovine, a questo romanziere mancato, occhi gentili e penna feroce, non fa difetto il gusto per l’analogia. Nel candidato Cetto/Albanese, nei suoi vestiti da gangster e nel disprezzo per il popolo coglione, Ceccarelli ritrova i riflessi della parabola recente.
Ceccarelli, chi è davvero Cetto?
Un mostruoso patchwork, un sogno e al tempo stesso un presagio. Quando si hanno gli incubi, si materializzano di preferenza mostri e pagliacci. I mostri fanno paura, i pagliacci turbano. Lui è un ibrido clownesco, di diabolica spettacolarità. Condensa pulsioni ancestrali che affondano le radici nella politica di sempre.
Non si schermisca, faccia i nomi.
La voce è quella di La Russa, il ciuffo che riassesta narcisisticamente di Sgarbi, la vena istrionica rimanda a Di Pietro, la volgarità, anche se meridionale, apparteniene a Umberto Bossi.
Bossi?
All’inizio dei ’90, in un capannone bergamasco, si produsse in un’intemerata alla Cetto nei confronti dell’attuale collega di maggioranza Margherita Boniver.
Che tipo di intemerata?
Mise il pugno a figurare il membro e con voce stentorea, andando avanti e indietro con la mano, diede il via allo show: “Con questo manico qua, bonassa, con questo manico qua”. La dimensione dell’uccello è un tipica metafora della moderna politica. Senza questo retroterra, il Berlusconi di oggi, dominato dal desiderio, non sarebbe quello che è.
Di chi è la colpa?
L’ignoranza e la decadenza nascono da un prematuro decesso. Morto il partito, il più fenomenale mezzo di pedagogica alfabetizzazione del Paese, si sono rotti gli argini. Chi militava in sezione, imparava a declinare correttamente gli avverbi, sapeva che non si diceva oppuramente, pena lo scherno collettivo.
Oggi?
Trionfa il dominio dello spettacolo. Cetto al pari di Berlusconi canta, balla e sventola la bandiera del machismo. Non ha una fidanzata, ma vagoni di vergini pronte a immolarsi. Il prodotto da laboratorio è la perfetta sintesi tra populismo antico, qualunquismo plastico e cultura televisiva.
Brividi.
Nei leader di oggi si agita una vena barbarica. Il demagogo telepopulista ammalia il pubblico e per ragioni di mero marketing, indossa la maschera di un agente infiltrato che alla costruzione della casa comune, preferisce l’abbattimento. La barbarie fa l’occhietto al sabotaggio del sistema. Sono maschere che attraggono la curiosità, la simpatia e alla fine anche il consenso, ma non nell’accezione antica di Moro e di Berlinguer. E’ un’approvazione incondizionata concessa da chi brama la disintegrazione collettiva al fine di devastare. In culo a tutti, come direbbe Cetto.
Figure che hanno una genesi antica?
Al centro di tutto c’è la commedia. La nostra dannazione e come non ignorava Flaiano, anche la nostra salvezza. Il telepopulista è antichissimo e però evoluto. Un tempo si diceva che i rappresentanti somigliassero ai rappresentati, perché esisteva ancora un patto ora in frantumi. Così tentare la scorciatoia dell’intimità e dell’immedesimazione ha un significato preciso. Il tempo felice della politica è finito e noi siamo governati da maschere, da mostri.
I progenitori di Cetto?
Guglielmo Giannini, stoltamente trattato come un figlio di nessuno quando non con ripulsa dalla storiografia di sinistra, è una fondamentale chiave di comprensione. Il fondatore dell’Uomo qualunque faceva il commediografo. Una macchietta napoletana con il monocolo e lo slogan nella tasca. Arriva alla politica con il cuore a pezzi perché gli è morto un figlio in guerra, è tutt’altro che scemo, usa le sigle alla maniera di Cetto. Il suo primo manifesto politico è un comprensibilissimo: “Siamo quelli che non vogliono avere i coglioni rotti da nessuno”.
Efficace.
Fa il verso alla resistenza dal sud liberato in anticipo. Storpia il vento del nord in rutto del nord. Da allora, non si contiene, intuisce il valore della provocazione, esagera. Vuole che il capo d’Italia sia un ragioniere, alle elezioni preferisce il sorteggio, quando i padri costituenti si riuniscono per redigere la Carta, lui minaccia di cantare le canzoni napoletane a Montecitorio per ridicolizzare l’assise. In Giannini abitano schegge di Pannella, di Bossi, di Berlusconi e anche se il parallelismo regge soprattutto se raffrontato alla prima Repubblica, personaggi della seconda che non avrebbero sfigurato in quella originaria come Razzi e Scilipoti. L’importanza di Giannini però non si esaurisce qui.
Dica.
Un giorno, come i moderni epigoni, racconta all’aula una barzelletta sul pappagallo. Una boutade pesante, il pappagallo si nasconde sotto la sottana di una donna anziana e poi giù, in un abisso che sfiora odori, istinti primari, la terra che giace sotto il terreno. Poi il pappagallo a un tratto si libera. Esce al grido di “prefiero la muerte”.
Ovvero?
Preferisco la morte all’odore di morte. Quando sacralmente bisogna eleggere il Presidente della Repubblica, Giannini fa votare per l’unica donna del suo partito. Una professoressa, Ottavia Penna. Un superomismo rivoltato che non disdegna i cambiamenti solo se platealmente inutili. Il suo erede è Lauro. Un profeta per tutti i Cetto d’Italia.
Achille Lauro.
Non diversamente da Cetto, esprime bene cinismo e spudoratezza. Riceve la gente nudo, sbadiglia in parlamento, si addormenta in aula, regala ai disgraziati pacchi di pasta e scarpe spaiate che ricongiungerà solo all’ottenimento dei voti. I suoi servi, i personaggi di contorno, somigliano a quelli di Albanese. Il Pmp, l’acronimo del suo suo Partito monarchico popolare era stato abbreviato in pasta, mozzarella, pomodori. Poi, neanche a dirlo, ha una squadra di calcio.
Come Berlusconi.
Prima della lotta tra le fiere fa il giro di campo al San Paolo, tronfio, felice, ebbro, con il popolino che ne magnifica le virtù amatorie: “Comandà, vuie nun murite mai, comandà, vuie tenite ’o pescione”.
Fallo di posizione.
Il cazzo, come il cazzotto, da sempre guida il gioco. Ora le racconto una cosa. Scrivendo la suburra, ero rimasto colpito dai regali di Berlusconi. Le farfalle, già passione di Nabokov, per me erano un mistero. Pareva le avesse inventate lui, giravano strane storie su larve custodite da scherani fantozziani e feste officiate al solo scopo di mostrare alle bellezze il simbolismo del lepidottero. Avevo perso il senso delle proporzioni fino a quando non mi venne in soccorso mammà.
Sua madre?
Stavo impazzendo. Studiavo da mattina a sera termini come anima, struttura, polimorfismo nella tradizione atzeca e cinese. Mia madre si avvicinò suggerendo la soluzione: “Filippo, devi sapere che quando mia sorella venne ricoverata al Policlinico, ogni giorno passava la caposala. Ruvida, proponeva: ‘Aho’ chi se vuò fa lavà la farfalla stammattina?’”. Vede com’è? Sempre lì si torna.