Gigi Donellil, Il Sole 24 Ore 4/1/2011, 4 gennaio 2011
DALL’ITALIA AL SENEGAL, LE NUOVE IMPRENDITRICI SONO MIGRANTI DI RITORNO
«Voi ci chiamate vucumprà, e noi invece a voi bianchi vi chiamiamo toubab. Voi i senegalesi li chiamate tutti vucumprà e noi, invece, quelli che vanno in Italia a lavorare li chiamiamo modou-modou, fatou-fatou se sono donne». Nel suo minimarket di Louga, gomiti appoggiati su una pila di confetti Valda ancora impacchettati, Ibrahim regala pillole di lessico della migrazione in chiave senegalese.
Il negozio di generi alimentari illuminato al neon offre di tutto e resta aperto ogni sera fino a tardi. La porta, spalancata sulla via di transito, illumina l’asfalto incerto, l’incedere africano dei passanti, i calessi tirati da ronzini vivaci che le donne ancora sembrano preferire alle auto. Per raccontarmi la sua storia di migrante tra Senegal e l’Italia, Ibrahim ha chiesto alla moglie di pazientare, tanto, dice, skype è gratis.
Ibrahim non ha ancora quarant’anni anni ma è un modou con i galloni. Il primo viaggio italiano risale a 16 anni fa. Da clandestino ammette, «ma è passato molto tempo». San Benedetto del Tronto via Roma, poi Ancona, Rimini, i Lidi ferraresi e ancora su verso Jesolo, una spiaggia dopo l’altra a vendere il piccolo artigianato africano. Infine Forte dei Marmi. Con i viaggi, negli anni, ha costruito la sua piccola fortuna. Lui minimizza, ma il negozio di generi alimentari è molto ben fornito e proprio accanto ne ha anche un altro, di abbigliamento, di cui va molto fiero. «In Italia ho imparato molto sullo stile - mi spiega - ma adesso, anche se vorrei fare diversamente, sono costretto a rifornirmi in Marocco dove si trovano prodotti di gusto italiano, ma a un prezzo migliore».
Ibrahim, qui a Louga - che è un paesone agricolo di 80mila anime 5 ore a nord dalla capitale Dakar - è solo uno tra tanti. Molti dei 200mila arrivati in Italia dal Senegal negli ultimi venti anni sono di queste parti, e si sente. Lo raccontano a gran voce i bambini che giocano a pallone a piedi nudi sollevando la sabbia del Sahel e ti indicano le case più belle gridando modou-modou, lo suggerisce il gemellaggio con Torino, ma anche lo sbocciare delle filiali degli istituti di credito. E poi lo dicono le donne, quando spiegano che qui ogni famiglia - ma proprio tutte, insistono - ha contribuito almeno con un figlio a costruire la più grande comunità di lavoratori stranieri dell’Africa nera nel nostro paese.
Le rimesse hanno trasformato Louga, tenendo a bada lo spettro della fame che la crisi delle arachidi, la desertificazione ma anche la guerra contro la Mauritania (’89) avevano scatenato. Gli euro passati di mano in mano sostengono i consumi quotidiani e quelli in eccesso sembrano rovesciarsi nelle case dei migranti, immacolate, nuovissime ma spesso anche disabitate. Poi, però, il 2008 è arrivato come una gelata anche qui ai confini del Sahara. La crisi in Europa ha suscitato allarme: «Le ditte italiane - spiega Ibrahim - ora gli operai li licenziano, oppure ti offrono contratti brevi o incerti. Molto meglio fare la stagione sulle spiagge, dove non c’è ancora troppa concorrenza, e poi iniziare a pensare al futuro, un futuro qui a casa nostra».
L’effetto crisi, ma non solo quello, ha spinto anche Marie a tornarsene al paese. Per lei, fatou-fatou e mamma di due bambini cresciuti a Lucca, si tratta di trovare un suo personale equilibrio. Il marito ha un buon lavoro fisso e resta dunque in Toscana, lei dal 2009 «solo una serie di contratti a termine». I figli intanto crescono - «ma per la legge non sono comunque italiani» - e a volte la spaventano: soprattutto quando le sembrano incapaci di capire la fatica e le sofferenze patite dai genitori africani. Insomma, viziati. Marie, già contabile in un oleificio, è precisa anche mentre parla in italiano: «Un po’ di Senegal - dice - farà bene ai miei bambini. Capiranno molte cose crescendo in Africa, e forse apprezzeranno ancora di più anche quello che possono avere in Italia».
Il ritorno non è comunque definitivo, né viene vissuto con leggerezza. Il marito, spiega Marie, in Toscana, guadagna in un mese più di quanto un suo omologo senegalese raccolga in un anno. Marie e le altre è chiaro che non sono tornate, a casa, per stare in casa e poi l’esperienza italiana ne fa delle leader naturali. «Io ho cominciato a pensarci ai compleanni di mio figlio, quando era l’unico bambino africano in una classe elementare di Mantova. Per me diventava una ragione d’orgoglio poter offrire sempre agli amichetti italiani un prodotto senegalese, un succo, un sapore del mio paese. Poi ho pensato che era ora di farlo diventare un business». Aichatou Sarr - sorridente amalgama di signora afrolombarda - corre, organizza, gesticola, portando a spasso con eleganza la sua persona avvolta in un confortevole abito etnico di foggia italiana. A Mantova ha raccolto i connazionali della diaspora ma non le è bastato: ora il suo progetto è quello di invadere il suo Senegal «e poi l’Italia perché no» con i succhi di frutta prodotti dalle donne di Kebemer.
La incontro mentre arringa un’assemblea femminile di lavoratrici dell’Association des Femmes pour la Solidarité et le Développement du Nord (Afsdn). È affiancata da Coumbaly Diaw, operatrice sociosanitaria a Parma dal ’98, animatrice in Senegal di alcune iniziative di sviluppo sostenute dagli italiani di Fondazioni4Africa. Loro - le donne senegalesi emigrate in Italia e tornate in patria - sono le fatou che cambiano nuovamente pelle e diventano le agenti di una nuova forma di cooperazione e anche le antenne accese sulle possibilità di finanziamento. Quello della trasformazione della frutta, che raccoglie circa 40 donne, è una parte di un progetto molto ampio che si sviluppa attraverso i settori della pesca, quello zootecnico e del turismo sostenibile e opera sull’educazione finanziaria di pari passo allo sviluppo delle casse rurali.
«È la nostalgia alimentare che diventa motore d’iniziativa economica», racconta Aishatou. Il succo di baobab, il bissap o anche il ditakh, che somiglia al kiwi ma solo nell’aspetto, in Senegal sono i frutti della quotidianità consumata in famiglia. «Noi li trasformiamo in opportunità di formazione e lavoro per molte donne, che nella piccola impresa trovano anche l’occasione di colmare i vuoti lasciati aperti dal basso tasso di scolarizzazione». In un paese agricolo che non ha ancora raggiunto l’autosufficienza alimentare - e che importa ogni anno 600mila tonnellate di riso dall’Asia - la cultura della trasformazione ha ancora ampi margini di affermazione. La produzione alimentare dipende dai cicli delle piogge e nelle campagne non è raro veder un allevatore gettare il latte "scaduto" nei campi.
Di certo non è un lavoro facile. E come tutti gli innesti - anche se sei una donna africana tra donne africane - il cambiamento solleva interrogativi e sospetti. «Noi per esempio abbiamo imparato a Parma e a Mantova il valore della cultura propria di un prodotto alimentare. Vogliamo che anche le donne di Kebemer escano dalla dimensione della bottega e crescano, come persone all’interno della famiglia anche attraverso la loro capacità di produrre reddito». A volte, Coumba e Aisha ammettono di perdere la pazienza: l’orologio regolato su Parma e Mantova fatica a rallentare il passo al ritmo di Kebemer. I ritmi di lavoro sono molto diversi, «le chiami in riunione alle 3 e arrivano alle 4», si discute un’ora sulla validità degli standard igienici quando magari basterebbe togliere gli orecchini. «E così a volte finisce che ci prendano in giro chiamandoci - con una punta di veleno - le nuove fatou-toubab».
Lasciando il nord del Senegal penso che il vucumprà Ibrahim dovrebbe essere fiero di loro. L’ora italo-africana batte il tempo delle fatou-toubab, migranti di ritorno cariche di sogni, perché tutto il mondo è paese e la differenza la fanno sempre le persone.