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 2010  dicembre 31 Venerdì calendario

L’Avvocato, quanti disastri senza mai pagare il conto - Con la solita spregiudica­tezza, una certa sinistra evo­ca il delicato fantasma di Gianni Agnelli per contrap­porlo alla brutale figura di Sergio Marchionne

L’Avvocato, quanti disastri senza mai pagare il conto - Con la solita spregiudica­tezza, una certa sinistra evo­ca il delicato fantasma di Gianni Agnelli per contrap­porlo alla brutale figura di Sergio Marchionne. L’uno, ai suoi giorni, padrone illumi­nato della Fiat, padre soccor­revole dei dipendenti, garan­te di relazioni industriali a mi­sura d’uomo. L’altro, mana­ger superstipendiato, sordo alle tradizioni solidaristiche dell’azienda torinese, che ha imposto le intese antidemo­cratiche di Pomigliano e Mi­rafiori. Nello scavare il solco tra lo stile che fu dell’Avvocato e quello dell’attuale ad, si è di­stinto l’editorialista del Fat­to , Furio Colombo. Furio non è un testimone qualsiasi. È stato per anni il cocco di Agnelli che lo fece presidente della Fiat Usa e gli regalò una cattedra alla Columbia Uni­versity, remunerandolo co­me cento tute blu. L’editoria­lista ha imperversato nelle ul­time settimane parlando in nome del defunto. Quasi fos­se lui- celebre in vita per l’ele­ganza e la socievolezza - ha rimproverato a Marchionne la primitività del comporta­ment­o e il pugno di ferro adot­tato con le maestranze. Esage­rando nell’immedesimazio­ne con l’Avvocato ne ha bi­stratto anche il giovane nipo­te e presidente della Fiat, John Elkann. Mentre Mar­chionne maramaldeggia con gli operai e «fa a pezzi la Fiat», tu John- questo il senso del­la reprimenda - «scegli di non esistere» e non inter­vieni per fermarlo. Sappi però che quello dell’ad «è il contrario del progetto Agnelli». Lui non avreb­be mai voluto una Fiat aguzzina ma una «Fiat popolare». Così, sopraf­fatto dalla nostalgia per il bel tempo anda­to, il settantottenne Colombo ci ha regala­to una caricatura: l’Av­vocato come Don Ciot­ti e la Fiat come una Onlus. La realtà è invece che la ricetta agnel­lesca ha portato l’azienda sul­l’orlo del crac. La sua condu­zione non è stata lungimi­rante n­é vantag­giosa per le centi­naia di migliaia di esistenze che dipendevano da lui. Due anni dopo la sua morte (2003), è dovuto accorrere al capezzale della Fiat l’italo-canadese col maglioncino per riacciuffarla in extre­mis . Lasciamo pure che i Colombo e i suoi simili -Cgil, Fiom, Vendola e gli altri con gli occhi alle spalle- beati­fichino ora Agnelli demoniz­zando Marchionne, ma l’eti­ca dell’imprenditore non si misura col loro metro. Al sin­dacato, l’industriale piace ce­devole perché gli dà lustro. Ai politici pure, perché gli dà meno grane. Ma il capo di un’azienda non ha che un modo per essere in pace con se stesso: far tornare i conti e dare un futuro alla sua creatu­ra. Non è quello che ha fatto Gianni Agnelli. Uomo affasci­nate, beniamino dei rotocal­chi, voce autorevole per mez­zo secolo di vita nazionale, l’Avvocato ha lasciato di se un bel ricordo. Fu - si disse ­l’ultimo re d’Italia. Celebre per le sue insonnie, le telefo­nate notturne in mezzo mon­do per tenersi informato, le sue folgoranti battute: De Mi­ta, «intellettuale della Magna Grecia»; Del Piero «un Pintu­ricchio » ma viziato; Furio Co­lombo, «la chioccia pakista­na », per i capelli a turbante e le occhiaie profonde, ecc. Di­screto come ogni buon pie­montese non ha mai ostenta­to le sue favolose ricchezze né tollerato che altri ne abu­sassero, come sa quell’oste che gli presentò un conto stra­tosferico pensando di farci la cresta e fu invece denuncia­to. Personalità mirabile, ma uomo del suo tempo. E la sua, fu l’epoca democristiana. Aveva la stessa tempra dei Moro e degli Andreotti che in­vec­e della strada dritta e diffi­cile, sceglievano le vie traver­se e i meandri per evitare le durezze dello scontro. Inna­morato di se stesso, ama­va esser amato e voleva andare d’accordo con la politica. I dc rappresenta­vano lo Stato e li fiancheggiò. I comunisti e la Cgil erano l’ostacolo e li blandì. In cam­bio della mansuetudine, pre­tese e ottenne favori per la Fiat. Invece di un’azienda sa­na, ne fece un’industria pro­tetta. Con la benevolenza uni­versale c­onquistò il monopo­lio italiano delle auto, ma l’au­to italiana perse prestigio nel mondo. Assuefatta alle sov­venzioni pubbliche, l’impul­so della Fiat all’innovazione deperì con gli anni. Quando, con Tangentopoli e la crisi dell’ultimo ventennio, lo Sta­to tirò i cordoni della borsa, l’azienda si scoprì indifesa. Alla morte dell’Avvocato era in un vicolo cieco e, prima che si affacciasse Marchion­ne, la chiusura un’ipotesi concreta. Agnelli prese le redini della Fiat nel 1966, sostituendo Vit­torio Valletta, il severo fidu­ciario di famiglia. Subito, in contrasto col passato, pensò più alla finanza che all’indu­stria. Leggendari i suoi rap­porti con Cuccia e Medioban­ca dai quali Valletta si era sempre tenuto lontano. Quando dopo il ’68 ci furono l’autunno sindacale, le occu­pazioni, gli scioperi, anziché contrastarli a muso duro, ce­dette. Andò a braccetto con Luciano Lama, il capo della Cgil, che considerava il sala­rio una «variabile indipen­dente » dei costi di produzio­ne. Elargì aumenti senza ba­dare ai conti. E fin qui, i danni erano suoi e della Fiat. Ma poiché Agnelli era nelle mani della politica, estese il pastic­cio all’intera economia nazio­nale. Eletto presidente della Con­findustria nel 1974, l’Avvoca­to concordò, infatti, con La­ma e il Pci l’indicizzazione au­tomatica dei salari al costo della vita. Doveva, con que­sto, salvaguardare la «pace sindacale», cosa graditissi­ma alla pavida Dc. Invece, es­sendo quello il clima, gli scio­peri si moltiplicarono. Per di più, innescò una mostruosa inflazione che superò il 20 per cento annuo. Fu cioè complice contemporanea­mente dell’incoscienza co­munista e dell’insipienza de­mocristiana. Per premio nel 1976, cessato l’incarico con­findustriale, la Dc gli offrì un seggio parlamentare, mentre l’economia andava a rotoli. Forse per pudore, Gianni de­clinò l’invito ma al suo posto divenne senatore dc il fratel­lo Umberto. Poco dopo, an­che la sorella Susanna entrò in Parlamento con i repubbli­cani. Era la plastica immagine della grande famiglia ostag­gio del Palazzo mentre il suo impero sopravviveva con i soldi dell’Erario. Come la fal­limentare industria pubblica dell’Iri, l’emblema di quella privata era a carico di Pantalo­ne. In un Paese moderno la Fiat avrebbe dovuto portare già allora i libri in tribunale. Ma il dramma sociale sareb­be s­tato così grande che la po­litica continuò a darle ossige­no. Negli anni ’80, Prodi di­ve­ntato presidente dell’Iri re­galò alla Fiat l’Alfa Romeo, ne­gandola alla Ford che voleva rilanciarla davvero. Negli an­ni ’ 90, lo stesso Prodi si inven­tò le rottamazioni per dare ad Agnelli l’ennesima chance . Solo la morte liberò l’Avvoca­to dall’incubo. Marchionne ha preso la strada opposta. Ha rotto con la politica e deciso che la Fiat o cammina con le sue gam­be o trasloca. Ha mostra­to il viso dell’arme, co­me l’Avvocato non aveva mai osato fa­re. Gran parte del sindacato ha capi­to. Furio Colom­bo, no. C’è qual­cuno disposto a disperarsi?