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 2011  gennaio 02 Domenica calendario

PITTSBURGH NON CONSUMA PIU’


La commessa del reparto profumeria ha 67 anni e li dimostra tutti mentre dice che la crema "La Mer" fa miracoli. Le chiedo come è andata la stagione natalizia e lei, dopo aver guardato intorno per controllare non ci siano capireparto o colleghe a sentirla, scuote la testa borbotta: «So-so», così e così. Continua a lavorare perché il suo piano pensionistico aziendale, quelli che si chiamano 401(k) e sono sostanzialmente dei fondi di investimento, è andato a picco con il crollo della Borsa nel 2008-2009 e non si è ancora raddrizzato, malgrado il Dow Jones sia cresciuto del 58% rispetto al minimo toccato nel 2009.

Siamo da Macy’s, quello che a New York è un immenso department store su Broadway e la 34° strada, ma questa è Pittsburgh, in Pennsylvania, un tempo capitale mondiale dell’acciaio e ora media città di provincia americana: 311.000 abitanti, ventimila meno di dieci anni fa, sessantamila meno di 20 anni fa, anche se l’area metropolitana sfiora i 2,3 milioni di abitanti.
Per capire cosa succede all’economia americana è inutile guardare alla Fifth Avenue di New York, con il suo Fao-Schwartz, il suo Disney Store, il suo Apple Store e tutto il resto, che fanno ormai parte dell’immaginario natalizio italiano. Occorre spingersi fino alla Fifth Avenue di Pittsburgh, una città non disperata e irrecuperabile come Newark: qui c’è una classe media, ospedali d’avanguardia, banche, molte università e fabbriche di medicinali. Un po’ come a Torino, qui la fine dell’industria pesante è stata pagata a caro prezzo ma la città aveva saputo in qualche modo riconvertirsi.

E così, in fondo alla Fifth Avenue di Pittsburgh troviamo tutti i nomi celebri dello shopping di New York: Bloomingdale’s, Brooks Brothers, Macy’s e, naturalmente, Saks Fifth Avenue. Solo più piccoli. Più scontati. Più disperati nella caccia al cliente natalizio. Qui non ci sono gli italiani che danno l’assalto all’Apple Store di New York per comprarsi una mezza dozzina di iPhone-4 a testa: i regali li comprano i residenti, oppure niente.

Come in tutti i grandi magazzini di questo tipo, anche da Macy’s si entra attraverso il solito assortimento di profumeria, orologi, occhiali da sole e bigiotteria: ci saranno forse dieci persone. Sono le 11 del mattino del 22 dicembre, cioè un orario in cui a Milano a Roma o a Bologna c’è la folla a caccia di regali. Qui, nel reparto "accessori", ci siano praticamente solo io e una commessa nera sovrappeso, anche lei oltre i 60, che cerca di accalappiare una coppia di brasiliani impellicciati per vendergli qualcosa. Per il resto, nessuno.

Macy’s è il grande magazzino più middle class che ci sia: si dà molte arie ma è pieno di prodotti alla portata di tutte le tasche, come le scarpe da uomo a $ 39,99, l’equivalente di 30 euro. O i guanti da donna di cachemire, che fino alla settimana scorsa costavano 42 dollari, ora sono a 29,99. Un metro più in là, i guanti "Charta Club" sono ribassati del 40%, quindi costano $16,80 mentre gli "Style" sono ribassati del 50% per arrivare a 16 dollari, che in moneta europea farebbero 12 euro. Guanti da donna di lana, di pelle, di pile, tutti con pretese di eleganza.

Nel reparto casalinghi c’è un po’ più di gente ma anche qui gli acquisti sono pochi: davanti a me in coda ci sono quattro persone e se non fosse per la leggendaria inefficienza dei commessi americani in due minuti saremmo già fuori tutti. Sadie Leroy, una madre che si trascina un riluttante bimbetto in giro per gli undici piani del grande magazzino, è venuta a cercare una tovaglia per il pranzo di Natale ma i prezzi sono ancora troppo alti per lei: «Pazienza, faremo con quella dell’anno scorso. Forse tornerò per i saldi». Tom Schwarz, un pompiere volontario di 32 anni, è qui per cercare un regalo per la fidanzata: «Ci sono molte buone occasioni ma bisogna fare attenzione, la crisi non è finita». Karen Gurman, una signora di mezza età che si aggira con l’aria smarrita tra le caffettiere e i forni a microonde, è qui non per fare acquisti ma per cercare lavoro: ha visto il cartello "Cercasi personale" all’ingresso. Visto come stanno andando le vendite natalizie la cosa sembra bizzarra: in realtà i commessi, tutti pagati il salario minimo, 7,25 dollari l’ora, che non sono neppure 900 euro al mese, servivano per Natale e per la stagione dei saldi, che inizia il 26, ma è un lavoro che dura due settimane.
Cento metri più in là c’è Saks Fifth Avenue, che sta tre gradini sopra Macy’s dal punto di vista del lusso e dovrebbe essere quasi immune dalla crisi: nella stagione natalizia le vendite di gioielli sembra siano aumentate dell’8,4% e quelle di borse e altri accessori di lusso dell’11,2% su scala nazionale. Infatti al piano terra, oltre al solito assortimento di profumeria e orologi fa bella mostra di sé un angolo pellicceria dove un bolero di visone viene offerto per la modica somma di 3.495 dollari più tasse. Sull’attaccapanni vicino ci sono un giubbotto di vitello spagnolo da 1.395 dollari e una giacca di jeans con il collo di opossum: prezzo 795 dollari. Anche questo reparto, però, è vuoto e il resto del grande magazzino è popolato di gente che guarda, ogni tanto prende in mano qualcosa, scambia due chiacchiere con le commesse annoiate e se ne va in cerca di altre offerte speciali. Qui non c’è il turismo europeo a tirare lo shopping.

I tre giorni prima di Natale sono stati tutti così, nonostante le pagine e pagine di pubblicità sul giornale locale, la Pittsburgh Tribune-Review. L’unico assembramento per lo shopping che avesse un’area familiare (lunghe code, gente carica di pacchetti, parcheggio pieno) è stato quello del 26 pomeriggio al Target di Homestead, il quartiere a sud del fiume Monongahela, dove un tempo c’erano le acciaierie e gli operai affrontavano i mercenari di Carnegie con le armi in pugno. Adesso c’è un lungofiume commerciale, una tipica operazione di "rinnovamento urbano" degli anni Novanta.
Al Target la folla c’è: «Affaroni, affaroni» mi dice Roberta Lorusso, mostrando i due cappotti per le sue gemelle di 7 anni, opportunamente parcheggiate dai nonni in questa domenica pomeriggio. Roberta è una pronipote di italiani venuti qui nel 1900, insegna in una scuola elementare e ha un marito poliziotto: i posti di lavoro nel settore pubblico fin qui hanno resistito meglio all’ondata di licenziamenti e di ristrutturazioni ma tutti gli Stati americani hanno deficit di bilancio paurosi e potrebbero ridurre drasticamente i servizi non essenziali già a gennaio. Per il momento, Roberta è ottimista e le cifre dell’economia americana, che nel trimestre luglio settembre è cresciuta al ritmo del 3,4% annuo, sembrano darle ragione.

Le lunghe code alle casse di Target, però, sono un miraggio di prosperità, come si capisce vedendo i clienti che aspettano il loro turno con dei pacchi comprati nei giorni precedenti: sono qui per il rito americano del cambio merce:non vi piace il colore della teiera? Si riporta al negozio e vi ridanno i soldi. La stampante che sembrava così conveniente non va d’accordo con il vostro computer? No problem, basta presentarsi con lo scontrino per farsi rimborsare. La playstation non piace al nipotino? Si cambia con un orsacchiotto di pelouche sperando che abbia più successo.
In teoria, gli articoli dovrebbero essere riportati nell’imballaggio originale e le offerte speciali dovrebbero essere vendite senza possibilità di cambi o rimborsi; in pratica tutto ciò che appare ragionevolmente integro viene accettato: fare contento il cliente è più importante di qualsiasi altra cosa.

I rimborsi del 26 sono uno dei motivi per cui occorre prendere con cautela i dati trionfalmente diffusi nei giorni scorsi dagli istituti di ricerca: secondo MasterCard Advisors SpendingPulse, per esempio, nei 50 giorni prima di Natale le vendite al dettaglio sarebbero salite del 5,5%, recuperando i livelli del 2007. E’ possibile ma non ci dice molto sulle condizioni dell’economia americana, che continua a comportarsi in modo schizofrenico: la Borsa sale, le aziende guadagnano, ma la disoccupazione rimane al 10% nei dati ufficiali, il 17% se si contassero i milioni di lavoratori scoraggiati.
Pittsburgh non se la cava neppure male rispetto ai luoghi del disastro postindustriale come Detroit o Cleveland, in Ohio ma basta guardare alle statistiche dei pignoramenti immobiliari per capire che ogni ottimismo sulla recessione "finita" è assurdo. In novembre ci sono stati 5.672 nuovi pignoramenti di case in Pennsylvania, portando il totale nei primi 11 mesi dell’anno a oltre 60.000 unità immobiliari. Di queste, in novembre, ne sono vendute 347. Questo significa che l’ondata di pignoramenti non è catastrofica come in California, dove in novembre le banche si sono riprese oltre 57.000 case, ma continua ad essere violenta.

Il dato significativo è il numero minuscolo di case effettivamente rivendute, malgrado il prezzo sia inferiore in media del 40% a quello pre-crisi: solo 347. Se viene venduta all’asta solo una casa ogni 16 pignorate, questo è il sintomo di un mercato che rimane in un circolo vizioso, una stagnazione che si trascinerà per anni. Un numero elevato di pignoramenti significa che i prezzi medi continuano a diminuire (su scala nazionale, 1,2% in meno in ottobre rispetto a settembre) e che lo stock di case vuote sul mercato continua ad aumentare, rendendo improbabile una ripresa dell’attività edilizia: «La quantità di case sul mercato è enorme, i pignoramenti continuano, ci vorranno cinque anni per riassorbire l’offerta» dice infatti l’economista Paul Ballew, della Nationwide Mutual Insurance di Columbus, in Ohio.

Parte di responsabilità nella situazione va all’amministrazione Obama, la cui inettitudine sul fronte della casa è stata un’amara sorpresa per gli americani. Secondo Karen Dynan, codirettore degli studi economici alla Brookings Institution, «il programma più importante dell’amministrazione per prevenire i pignoramenti, lo Home Affordable Modification Program, ha garantito modifiche permanenti delle condizioni del mutuo a meno di mezzo milione di famiglie, molto meno delle aspettative, che erano di assistere 3 o 4 milioni di proprietari di case. Inoltre, molti di coloro che hanno ottenuto le rinegoziazioni del contratto non riusciranno ugualmente a sfuggire al pignoramento perché le rate mensili sono ancora circa il 63% del loro reddito lordo».