Silvio Piersanti, il venerdì di Repubblica 31/12/2010, 31 dicembre 2010
COME VENDERE 54 MILIONI DI COPIE DICENDO POCO AI LETTORI
Alla più vasta e avida moltitudine di lettori di giornali del mondo è ammannita ogni giorno una zuppa tiepida nella
quale galleggiano notizie mutilate, addomesticate, edulcorate.
In un recente studio sulla libertà di stampa, condotto dall’associazione Giornalisti senza frontiere, bisogna scendere sino all’undicesimo posto della classifica dei Paesi con la stampa
più libera per trovare il Giappone. Una posizione non brillante per una nazione in cui i suoi circa 48 milioni di nuclei famigliari acquistano, ogni giorno, circa 54 milioni di giornali.
L’opulento universo mediatico nipponico è dominato da cinque giganti, i cinque quotidiani più venduti nel mondo, che posseggono anche i network televisivi più popolari del Paese (a parte la statale Nhk): Yomiuri Shimbun(shimbunvuol dire quotidiano), oltre 14 milioni di copie; Asahi Shimbun, oltre dodici milioni di copie; Mainichi Shimbun, cinque milioni e mezzo di copie; Nihon Keizai Shimbun, oltre 4,6 milioni di copie; e Chunichi Shimbun, oltre 4,5 milioni di copie.
Davanti a queste cifre, che a noi occidentali danno il capogiro, verrebbe da pensare che la stampa giapponese interpreti il ruolo di temuto censore nella politica, nell’economia e in ogni altro settore vitale della società. Sbagliato: questi giornali monstre non sono che megafoni cinicamente usati dal Palazzo per gestire il monopolio della verità, di quella verità filtrata e concessa al pubblico, nei tempi e nei modi desiderati dal Potere.
In Giappone non c’è l’albo professionale dei giornalisti. Normalmente si impara il mestiere seguendo e servendo i colleghi più esperti. Il traguardo più ambito è di essere ammessi ai kisha kurabu (kishavuol dire stampa, kurabu è la giapponesizzazione fonetica della parola inglese club). Farne parte è la consacrazione della professione giornalistica. Ce ne sono almeno 1500 e sono ovunque: nel palazzo imperiale, nella
presidenza del consiglio dei ministri, in Parlamento, nei ministeri, nei partiti, nei governi regionali, nelle maggiori industrie, nella Borsa, negli ospedali, nei tribunali, negli uffici centrali di polizia, nelle università. Dovunque venga esercitato il potere, c’è un kisha kurabu. Il Palazzo offre loro uffici, computer, telefoni, segretarie e… notizie. I giornalisti che ne fanno parte provengono immancabilmente dai cinque colossi mediatici che si dividono la grande torta dell’informazione in Giappone. Professionisti di altre testate o, non sia mai, di altre nazioni, magari di aziende leader come Ap, Reuters o Bbc, non sono ammessi. Bisogna avere il beneplacito del Palazzo, a qualunque piano di esso si voglia puntare: da quello imperiale al commissariato.
I prescelti hanno un compito molto semplice: scrivere quello che gli viene detto (o suggerito, o fatto capire) di scrivere, facendo bene attenzione, pena la carriera, a non dire nulla di meno e soprattutto nulla di più. Così si spiega la carenza di giornalismo investigativo nei quotidiani giapponesi e la loro sostanziale e grigia identicità ideologica. I giornalisti in Giappone non sono i ringhianti cani da guardia della tradizione anglo-americana, ma innocui, ben addestrati cagnolini da salotto dei mandarini del potere.
Quando si deve intervistare una personalità politica o un grande industriale, le domande vanno concordate tra tutti i membri della kisha kuraku locale e sottoposte in anticipo all’approvazione della segreteria della persona da intervistare
che decide quali possono essere inoltrate, quali debbono essere modificate, quali siano del tutto improponibili.
Non che non ci siano stati personaggi importanti, anche primi ministri e capi di partiti politici, con la carriera stroncata perché colti con le mani nel sacco, ma non sono stati smascherati da indagini giornalistiche: sono stati i loro avversari o i loro«amici» politici a defenestrarli, lasciando poi ai giornalisti il compito dello scoop pilotato. «Se i giornali non fanno una caccia alla strega ogni dieci anni stanno male, è come un ciclo mestruale» ha detto il noto analista politico Minoru Morita.
Il deputato Hiromu Nonaka, invece, ha rivelato questa primavera che, mentre era capo di gabinetto del primo ministro Keizo Obucho, dall’aprile del 1998 all’ottobre 1999, fu incaricato
dal presidente del consiglio di elargire a più riprese generose somme ai maggiori commentatori politici, prelevando il danaro da fondi segreti (1,46 miliardi di yen, circa 14 milioni di euro)
gestiti dal governo senza bisogno di ricevute o altregiustificazioni. Nonaka non ha fatto i nomi dei giornalisti beneficati, ma ha detto che uno solo, il veterano Soichiro Tahara, aveva restituito il danaro. In qualsiasi altro Paese con vera libertà di stampa, questa rivelazione sarebbe deflagrata come un’esiziale granata, ma non in Giappone: il giorno dopo era già scomparsa dalle pagine dei giornali. Solo il settimanale Focus ritornò sull’argomento dopo aver ricevuto da una fonte governativa imprecisata una lista di nomi di giornalisti con accanto una cifra diversa che si presume indicasse l’ammontare del danaro intascato da ciascuno. L’indipendente Tokyo Shimbun osò continuare a interessarsi al caso e, come scrisse, «per quanto fosse una cosa molto rude da fare», chiamò i giornalisti della lista. I pochi che accettarono di parlare lo fecero soltanto per negare di aver ricevuto danaro. Illuminante
il commento di Hisayuki Miyake, il decano dei commentatori politici, il cui nome non figurava nella lista: «È facile dire che dovremmo respingere le donazioni di danaro, ma se rifiutiamo i
loro soldi i politici la prendono come un affronto e se ne va in fumo il rapporto di amicizia e di fiducia reciproca tra noi e loro costruito con anni di paziente lavoro». E tanti cari saluti alla
deontologia professionale.
Il 24 settembre scorso, il governo giapponese rilasciò il capitano del peschereccio cinese che aveva speronato due guardacosta giapponesi dopo aver violato le acque territoriali davanti alle contese isole Senkaku. Ufficialmente, fu annunciato che la decisione era stata presa dalla magistratura senza
indebite pressioni da parte del governo. Si è saputo solo nella prima settimana di dicembre che, in realtà, Tokyo aveva assicurato Pechino che la liberazione era in corso una buona mezza giornata prima dell’annuncio della magistratura, rendendo evidente che il controverso rilascio era stato deciso
unilateralmente dal governo per paura di rappresaglie economiche o addirittura militari da parte della Cina. È
possibile che nessuno delle dozzine di giornalisti della kisha kurabudella presidenza del consiglio abbia saputo nulla prima? Certamente molti ne erano al corrente, ma non erano stati autorizzati a scriverne.
In compenso, si è potuto conoscere in ogni dettaglio, e in tempo reale, «l’increscioso incidente» che, poche settimane fa, ha visto l’influente deputato democratico Hiroshi Nakai invitare a sedersi il principe Akishino e la moglie, principessa Kiko, che attendevano in piedi (come richiesto dall’etichetta imperiale) l’arrivo dell’imperatore Akihito e dell’imperatrice Michiko a una cerimonia in Parlamento. «Sedetevi pure, così ci possiamo sedere anche tutti noi deputati» aveva sussurrato il parlamentare al principe e alla consorte, mettendoli in imperiale imbarazzo. Per quanto sussurrato, il pragmatico suggerimento è stato captato dai deputati dell’opposizione che hanno immediatamente chiesto una punizione esemplare del deputato.
A più riprese, governi di centrodestra e centrosinistra hanno risposto alle pressioni dei settimanali, dei freelance, dei corrispondenti esteri con promesse di liberalizzare l’accesso ai kisha kurabu, ma, a parte qualche rarissima eccezione, la situazione rimane invariata. I kisha kurabuinglobano molte delle migliori penne del Paese. Se si togliesse loro il bavaglio, potrebbero usare il loro talen- to e la loro creatività per contribuire allo sforzo del Giappone per uscire dalla lunga crisi che l’affligge.