Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 31/12/2010, 31 dicembre 2010
LA FIAT APRIPISTA DEI CONTRATTI
Un sistema di relazioni industriali che consenta la governabilità degli stabilimenti e di essere competititivi. Quella che si sta svolgendo intorno al tavolo delle trattative su Pomigliano e Mirafiori è una partita che la Fiat ha giocato da sempre, da cent’anni a questa parte, pur con le debite varianti, per conseguire quest’obiettivo. Risale infatti al 1913 l’intesa, firmata dal fondatore della Fiat Giovanni Agnelli con il leader della Confederazione generale del lavoro (Cgdl) Ludovico D’Aragona e con quello della Fiom Bruno Buozzi, che contemplava la facoltà per l’impresa di ridefinire liberamente le condizioni del lavoro in fabbrica, per l’avvio di un’incipiente produzione in serie sulla base di procedimenti fordisti-tayloristici, in cambio del riconoscimento al sindacato della rappresentanza a tutti gli effetti della manodopera.
Fu questo il prologo del contratto collettivo di lavoro, recepito poi dalla Confindustria e, insieme, il preludio della politica della Fiat tendente, da allora, a stabilire nei rapporti con il sindacato un modello di carattere consociativo, d’accordo o meno che fosse l’Amma, l’associazione imprenditoriale di categoria.
Che questa fosse la sua stella polare, Agnelli lo confermò anche all’indomani dell’occupazione operaia delle fabbriche nel settembre 1920, dichiarandosi disposto a prendere in considerazione la prospettiva di una cooperazione fra dirigenti aziendali e delegati sindacali nell’organizzazione delle officine pur di assicurare una collaborazione fattiva delle maestranze al rilancio dell’attività produttiva; altrimenti, non gli sarebbe rimasto che andarsene all’estero (dove, del resto, la Fiat aveva creato, prima della guerra, uno stabilimento nei pressi di New York, la cui attività era stata convertita durante il conflitto all’importazione di materiali dell’America).
A ogni modo, pur di mantenere in vita un dialogo costruttivo con la Fiom, Agnelli giunse persino, nell’agosto 1923, a firmare su due piedi un accordo con le Commissioni interne, ancorché egemonizzate dai comunisti, e sebbene il governo fascista avesse chiesto di abolirle rimpiazzandole con i "fiduciari di fabbrica" nominati dalle Corporazioni. Ciò suscitò la collera di Mussolini, come avvenne anche nel luglio 1927, quando La Stampa addebitò alla rivalutazione eccessiva della lira imposta dal duce la caduta delle esportazioni e quindi la decisione, suo malgrado, di Agnelli di licenziare parte dei suoi operai. Il duce reagì accusando la Fiat di considerarsi «un’istituzione intangibile e sacra dello Stato, al pari della Dinastia, della Chiesa, del Regime», e minacciandola che lo Stato avrebbe potuto anche «disinteressarsi del suo destino». Senonché, Agnelli seguitò a fare di testa sua quanto al genere di rapporti di lavoro che riteneva più confacente per la Fiat: al punto che nel giugno 1932, nel pieno della Grande crisi, auspicò che, per garantire l’occupazione e assicurare agli operai di che vivere, si riducesse l’orario di lavoro a parità di salario. Una proposta che, da lui lanciata deliberatamente attraverso un’agenzia di stampa americana, fece il giro del mondo e gli valse il plauso dei sindacalisti antifascisti rifugiatisi all’estero.
A suo modo, Valletta rinverdì poi la strategia consociativa della Fiat in quanto, se da un lato adottò una politica repressiva nei confronti della Fiom, dall’altro propose una sorta di patto solidaristico-paternalista sulla base di un contratto aziendale che, in cambio dell’applicazione di modelli produttivistici spinti, prevedeva un trattamento economico più elevato rispetto a quello del contratto collettivo e una serie di provvidenze extra per le maestranze.
Dopo l’"autunno caldo" del ’69, ai tentativi esperiti da Umberto Agnelli di trovare un modus vivendi con il sindacato unitario metalmeccanico (consenziente o meno che fosse la Confindustria) fecero poi seguito l’appello dell’Avvocato a Luciano Lama per un "patto dei produttori" e il famoso accordo del 1975 con i sindacati sull’indicizzazione della scala mobile. Quale presidente in carica della Confindustria, Gianni Agnelli puntò così a far valere un modello consociativo quale asse portante di un sistema di relazioni industriali, a livello generale, imperniato sulla "concertazione".
Successivamente, tra gli anni 80 e 90, lo "stato maggiore" dell’ammiraglia del capitalismo italiano cercò di compiere un passo ulteriore nella prospettiva di una "partecipazione" del sindacato in tema di formazione professionale, valutazione dei passaggi di categoria, gestione dei servizi aziendali, miglioramento dell’ambiente di lavoro. E ciò in funzione di un accordo quadro per un sistema normativo, all’insegna della lean production alla giapponese, di cui la nuova fabbrica integrata di Melfi avrebbe dovuto essere il terreno di sperimentazione.
Non si trattava, certo, di un avvicinamento alla "cogestione" alla tedesca, da sempre esclusa del resto sia dai sindacati che dalle grandi imprese. Viene tuttavia da chiedersi se il consenso della Fiom (che venne invece a mancare) a uno sviluppo calibrato d’istituti partecipativi sul versante dell’organizzazione del lavoro, quali proposti allora da corso Marconi, non avrebbe evitato il dilemma a cui si è giunti oggi: con il sindacato spaccato in due tronconi e la Fiat di Sergio Marchionne, alle prese con le sfide sempre più impervie della globalizzazione, ormai risoluta a superare il modello centralistico della contrattazione collettiva (che comporta anche l’uscita, sia pur temporanea, della newco Fiat-Crysler dalla Confindustria) quale conditio sine qua non per il varo degli investimenti del gruppo automobilistico su Mirafiori.