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 2011  gennaio 03 Lunedì calendario

Il tenore playboy delle Camicie rosse - Per l’anagrafe era Giovanni Matteo de Candia, figlio del marchese don Stefano, generale e aiutante di campo di Re Carlo Felice

Il tenore playboy delle Camicie rosse - Per l’anagrafe era Giovanni Matteo de Candia, figlio del marchese don Stefano, generale e aiutante di campo di Re Carlo Felice. Alla storia è passato con il nome d’arte, semplicemente Mario, in omaggio al condottiero romano di parte democratica. Nacque a Cagliari nel 1810, morì a Roma nel 1883 e nel mezzo fu uno dei più famosi tenori dell’Ottocento, nonché cospiratore mazziniano, finanziatore di Garibaldi, playboy, marito di un’altra star canora e idolo di mezza Europa, soprattutto degli inglesi. Tanto che Joyce lo cita nell’ Ulysses mentre canta la Martha di Flotow al Covent Garden di Londra, dove infatti fra le sacre reliquie del teatro è tuttora esposto il suo ritratto. Per gli amici di Mr. Bloom, «Mario the tenor» ricordava un Cristo da preraffaelliti o da film di Zeffirelli: slanciato, occhi azzuri, lunghi capelli biondi, barba idem. Incarnava l’eroe romantico sulla scena, ma il suo ricordo non è sbiadito perché lo fu anche nella vita. A Cagliari, per il bicentenario della nascita, gli hanno dedicato un convegno. La famiglia era aristocratica e codina. L’adolescente, che si chiamava ancora Giovanni, fu mandato al Collegio militare di Torino, dove studiò con un altro giovin signore destinato a una carriera più brillante perfino della sua: Camillo Benso di Cavour. Mario diventò ufficiale. Ma, di guarnigione a Genova, fu talmente contagiato dalle idee mazziniane che dovette tagliare la corda, riuscendoci appena in tempo per evitare l’arresto. I maligni sostengono che in realtà scappò per una faccenda di donne; in effetti, fu salvato da un’aristocratica dama che lo nascose per un mese nella sua camera da letto, trastullandolo nel frattempo con altre e meno patriottiche attività. Sta di fatto che dal 1836 il cavaliere de Candia passò dallo status di ufficialetto sabaudo a quello di esule. Ovviamente a Parigi dove, senza un soldo ma con un titolo, frequentava i migliori salon degli emigrati italiani, soprattutto quello della principessa di Belgiojoso. Fu la sua fortuna, perché qui incontrò Giacomo Meyerbeer che lo sentì cantare. Meyerbeer era un ebreo tedesco e un operista francese, ma aveva gusti vocali italianissimi. Capì che quel ragazzo che tentava di guadagnarsi da vivere insegnando scherma ed equitazione (da buon nobile, Mario non sapeva fare nulla) poteva diventare un tenore, lo fece studiare e poi debuttare, nel ‘38 all’Opéra, come protagonista del suo Robert le diable . E fu subito trionfo. Per più di trent’anni, Mario non fu un tenore, ma il tenore. Specie su tre piazze: Parigi (al Théâtre des Italiens, non all’Opéra), Londra e Pietroburgo. Ereditò da Rubini lo scettro di re dei tenori e di tenore dei re: fra le groupie coronate, la più sfegatata era la Regina Vittoria. Anche perché Mario era, oltre che bravo, pure bello, anche se qui bisogna fidarsi delle fonti coeve perché nei dagherrotipi, fra la pancetta e i riporti, sembra un commendatore. L’ora della gloria scoccò nel 1843, quando Mario cantò alla prima assoluta del Don Pasquale di Donizetti: la scrittura di Ernesto, difficilissima, è un ritratto delle sue possibilità vocali. Tre anni dopo, il giovane Verdi, pur di averlo, non esitò a scrivergli un brano alternativo per I due Foscari , «Sì, lo sento Iddio mi chiama», una sospirosa cabaletta di grazie dove però, sospirando sospirando, il tenore sale due volte a uno stratosferico mi bemolle sopracuto (il brano lo incise Pavarotti con Abbado: ma era troppo acuto perfino per lui e così dovette cavarsela con un bizzarro falsetto: cliccare per credere www.youtube.com/watch?v= mQsqtU2_gbg). L’amore, invece, Mario lo trovò nelle braccia di Giulia Grisi, il suo equivalente femminile: cantante acclamata, bella donna, grande scialacquatrice e patriota convinta. Il fatto che fosse sposata con un altro non impedì loro di diventare una coppia fissa nella vita e in palcoscenico, di fare sei figlie e di sposarsi quando finalmente l’importuno si tolse di mezzo. Idolatrati, fra una matinée con Chopin e un omaggio in versi di Théophile Gautier, Mario e la Grisi furoreggiavano per l’Europa, tranne che in Italia perché lui aveva promesso a mammà che non avrebbe disonorato ulteriormente la famiglia facendosi vedere in palcoscenico. La coppia canora più «glam» dell’Ottocento ebbe solo il torto di non ritirarsi in tempo: ma erano prodighi e avevano sempre bisogno di soldi. E poi Mario si conservava fascinoso: il Moniteur scrisse acidamente che le donne preferivano vedere lui che ascoltare qualsiasi altro tenore, mentre un giovane Boito ancora iconoclasta irrideva al «ridicolo cigolìo di quella gola incensata», aggiungendo che Mario puzzava sempre di sigaro. In effetti, cosa strana per un cantante, era un fumatore accanito. I soldi, però, gli servivano anche per l’Italia. Finanziò Garibaldi, ospitò Manin a Parigi e Mazzini a Londra. La figlia e biografa Cecilia racconta che, prima della spedizione dei Mille (per la quale il tenorissimo donò 60 mila lire), ci fu un raduno a Londra dove Mario e la Grisi intonarono inni patriottici per le Camicie rosse. La Regina Margherita seguì l’esempio della collega Vittoria e gli assegnò una pensione quando, rimasto vedovo e senza soldi, Mario si stabilì a Roma finalmente italiana per morirci. Il Risorgimento si è fatto anche cantando.