Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore 2/1/2011, 2 gennaio 2011
L’ANNO DIFFICILE DEL RE DOLLARO
Un anno vissuto pericolosamente si conclude nel turbolento mondo delle valute con molte incognite e un punto fermo. La sola certezza che il 2010 lascia in eredità è che l’euro non sostituirà il dollaro come divisa di riserva globale: i pesanti scricchiolii dell’eurozona tendono a escludere una prospettiva di cui tanto si era discusso in tempi che oggi sembrano remoti. Il paradosso è che la vera storia dell’anno è stata la reale (e ancora di più percepita) debolezza non solo dell’euro ma anche del dollaro, a fronte dei robusti progressi delle divise di una serie di paesi emergenti, tanto che non mancano i tuttologi che inquadrano le tendenze valutarie nello scenario-tormentone sul declino dell’Occidente in nuovi equilibri globali.
Il biglietto verde è stato umiliato dalla parità raggiunta e superata da tre divise: il dollaro australiano (+13,4% quest’anno e miglior performance mondiale negli ultimi due anni, trainato anche dal boom delle commodity), il franco svizzero (valuta-rifugio contro cui il dollaro Usa ha perso il 9,25%) e il dollaro canadese (nei cui confronti la perdita è stata del 5,23%). Il biglietto verde è calato del 12,3% sul superyen, ma si è consolato in quanto nei suoi confronti l’euro si è deprezzato del 6,6% e la sterlina di quasi il 4 per cento. Tra i vincitori del 2010 figurano tutte le valute asiatiche (guidati dal +10,6% del baht, +11% del riggit e +95% del dollaro taiwanese), mentre spiccano le performance del rand sudafricano (+12%) e i guadagni delle divise di paesi latinoamericani come Brasile, Messico e Cile. Non ha stupito il dato rilasciato giovedì dall’Fmi, secondo cui nel terzo trimestre la quota in dollari delle riserve valutarie mondiali dichiarate è scesa dal 62,1 al 61,3 per cento.
«Non c’è alcun candidato plausibile a rimpiazzare il ruolo del dollaro come moneta dominante», enfatizza però Peter Kenen della Princeton University: né l’Europa né la Cina presentano validi sostituti e non è credibile il decollo di un ruolo primario per i diritti speciali di prelievo dell’Fmi (prospettiva che Pechino aveva blandamente suggerito). Gli fa eco un rapporto della Pimco (gestore del maggior fondo obbligazionario del mondo), secondo cui, finanziariamente parlando, l’eurozona è in crisi e la Cina è immatura, senza contare che «gli Usa restano la maggiore potenza del mondo sul piano economico, politico e finanziario». Il sogno di grandezza dell’euro si è infranto sulla dicotomia tra politica monetaria comune e politiche fiscali multiple, oltre che sulle reazioni erratiche alla crisi connesse alle diverse priorità delle leadership dei paesi-guida. Presso alcuni strati dell’opinione pubblica europea (e non solo), comunque, il 2010 è stato l’anno del rilancio delle teorie cospirative. Le rivelazioni del Wall Street Journal sulla ormai famosa cena dell’8 febbraio a Manhattan tra rappresentanti di grandi fondi che avrebbero concordato di lanciarsi all’assalto dell’euro colpendo le periferie deboli dello spazio comune hanno rinfocolato le polemiche contro i big della finanza, salvati nel 2008 al prezzo di un aumento dei debiti pubblici e pronti a individuare opportunità di profitto proprio nell’indebolimento dei loro salvatori. Anche chi rifugge da ogni estremismo, però, sottolinea i pericoli della crescita esponenziale del trading valutario, diventato sempre più terreno di caccia - per i grandi fondi come per gli investitori al dettaglio - in presenza di un’ampia liquidità che fatica a trovare sbocchi. Il decollo di nuovi sofisticati strumenti per "scommettere" sul crollo finanziario di interi stati inserisce il fronte valutario nell’agenda delle riforme internazionali allo studio per regolare il settore dei derivati e frenare l’eccesso dei movimenti speculativi di capitali.
L’altra contraddizione del 2010 è che passerà alla storia sia come l’anno delle lamentele anti-mercato contro i megaflussi speculativi sia come quello della cagnara sulla cosiddetta "guerra delle valute" ossia sul rinnovato interventismo manipolatorio dei governi. Nessuno desidera una valuta forte che danneggi le sue esportazioni e tutti negano di darsi al beggar-thy-neighbor, ma nessuno è esente dal sospetto di volersi avvantaggiare a spese altrui. Gli Usa, fustigatori della Cina per il passo da lumaca con cui lascia apprezzare lo yuan (+3,2% nel 2010), sono stati accusati di non essere all’altezza del ruolo globale del dollaro e di voler rilanciare la loro economia con la scorciatoia del biglietto verde debole. Le critiche alla fase due dell’allentamento quantitativo della Fed sono arrivate un po’ da tutti, Germania e Giappone compresi.
Tokyo è intervenuta a ottobre sui mercati per la prima volta dal 2004 per frenare un superyen - contro cui la perdita dell’euro ha sfiorato il 20% - arrivato vicinissimo al record assoluto di 79,75 sul dollaro toccato nel 1995: da beneficiario del carry trade fino alla crisi globale del 2008, il Sol Levante ne è diventato vittima nell’anno in cui il carry trade si è manifestato dall’area del dollaro verso zone caratterizzate da tassi di interesse più alti. Vari paesi emergenti sono invece ricorsi anche a misure di controllo e scoraggiamento dell’afflusso di capitali per frenare la corsa delle loro valute. Il vertice G-20 di Seul ha evidenziato i dissensi e lasciato la porta aperta a interventi statali di "correzione" di presunti eccessi. La presidenza francese del prossimo G-20 ha dichiarato la sua ambizione di lasciare il segno, ma nessuno crede nell’arrivo di una nuova Bretton Woods. Alla fine, desta quasi stupore che per il 2011 - sia pure con varie sfumature e cautele - le previsioni correnti nei report di fine anno degli analisti indichino un 2011 relativamente tranquillo. Simon Flint e Jens Nordvig di Nomura, per esempio, disegnano un’annata fin troppo logica: un "consolidamento" (ossia leggero apprezzamento) del dollaro verso le principali valute; un euro su cui grava un risk premium ma che dovrebbe restare nella fascia 1,25-1,45; uno yen in leggero indebolimento; uno yuan che prosegue il suo graduale apprezzamento verso quota 6,22 a fine anno; una tendenza a rivalutazioni nei paesi emergenti in Asia e America Latina frenata da ulteriori controlli sui capitali. Lo scenario più probabile, insomma, appare quello desiderabile.