Giuseppe Scaraffia, Il Sole 24 Ore 30/12/2010, 30 dicembre 2010
LA STRANA COPPIA
In un immaginario Museo della moda il trono dovrebbe spettare a un libro rilegato nella stoffa di una sontuosa sottoveste. Regalato a Marcel Proust da uno dei suoi rari amori femminili, una grande cortigiana, è l’emblema dell’unione tra la moda e la letteratura. Tradizionalmente lontane, sono una strana coppia solo in apparenza. In realtà si tratta dei due modi più sensibili a disposizione dell’umanità per reagire all’incessante lavorio di demolizione del tempo. Se ogni libro è un’arca di Noè che porta in salvo un frammento del passato raccontandolo nel presente, ogni moda – impegnata, come quelle che l’hanno preceduta e seguita, a esprimere l’attualità – serve a esorcizzare l’avanzata inesorabile del tempo. Per farlo non esita a ricorrere ai più strani espedienti. Uno dei quali, il più paradossale, è – badiamo alla parola – il «revival». «La moda – insegna Walter Benjamin – ha il senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato. Essa è un balzo di tigre nel passato».
Entrambi, la moda e la letteratura, sono a loro agio nella foresta dei simboli evocata da Charles Baudelaire. In questo irriducibile dandy l’intuizione dell’alleanza della moda con la morte si esprimeva nell’eleganza luttuosa del suo famoso abito nero, ma anche nell’elogio del trucco, che impone al tempo il suo inganno. Non a caso Stephane Mallarmé, ricorda Daniela Baroncini nel suo efficace, limpido saggio La moda nella letteratura contemporanea, aveva cercato di arrotondare l’esile stipendio scrivendo sotto una serie di pseudonimi una rivista per signore, «La Dernière Mode». Certo, come dimostra Fabiana Giacomotti nel suo ben documentato libro (La moda è un romanzo), la moda è anche il punto d’incontro tra l’ascesa sociale e la vita sessuale. Il panciotto molto aderente del visconte che invita a ballare Madame Bovary a una festa aristocratica è la traduzione in stoffa della libertà dei privilegiati. A Stendhal basta un suggerimento di moda per dichiarare il tramonto del Romanticismo e del suo principale stato d’animo, la malinconia. Nel Rosso e il nero, un fatuo principe russo rimprovera amichevolmente Julien Sorel: «Avete l’aria di un trappista... l’aria triste non può essere elegante, dovete avere l’aria annoiata. Se siete triste è perché qualcosa vi manca». Poi lo trascina in un negozio e gli indica una sontuosa cravatta nera. «Fatemi il piacere di prenderla e di buttare via quell’ignobile corda nera che avete al collo».
Altre volte una cravatta nera può tradire, in chi la porta inconsapevolmente, la fine di un’epoca che sta per essere soppiantata dalla disordinata energia della modernità. In Tenera è la notte, Francis Scott Fitzgerald ritrae il suo eroe, Dick, mentre si veste da sera, infila una camicia bianca e una cravatta nera con la perla. «Il nastrino degli occhiali da lettura passava attraverso un’altra perla della stessa dimensione che pendeva a pochi centimetri dall’altra». L’elaborata eleganza, il tocco vecchio stile della perla e gli occhiali da presbite rivelano molte più cose di una puntualizzazione esplicita.
La frivolezza può fare prevalere la moda sulla persona, trasformandola in un insidioso manichino. La sofisticata lady Margot di Evelyn Waugh ha «due piedini di pelle di lucertola, gambe di seta, un corpo di cincillà, un aderente cappellino nero appuntato con platino e smeraldi». Ma un vestito, insegna Djuna Barnes, può essere anche «scaltro, molto disinvolto e commovente. Era tutto di suisse pepe e sale, con un corpetto molto attillato» e al centro un agnello sgozzato ricamato, preludio al sacrificio del corpo offerto all’amante. Passare da un colore all’altro può essere rivelatore. Anna Karenina, in un abito di velluto nero scollatissimo, «che lasciava nude la gola e le spalle fiorenti che parevano scolpite nell’avorio», stupisce Kitty che la vede sempre vestita di viola. «Quel vestito era solo una cornice: scompariva e si vedeva soltanto la donna, semplice nella sua eleganza». Invece il tailleur grigio di Momina, una delle protagoniste di un dimenticato romanzo di Cesare Pavese sul mondo della moda torinese, è la corazza con cui si protegge dallo «schifo del mondo».
D’altronde, constatava Jean Cocteau, i bei vestiti servono a farseli togliere prima. L’intuizione della prossimità della moda con la letteratura l’aveva spinto a disegnare modelli per la sua amica Coco Chanel come per la sua rivale Elsa Schiaparelli. Ma proprio lui, prevalentemente omosessuale, era rimasto vittima del fascino gelido della bellissima nipote dello zar, Natalie Paley che lavorava come mannequin. Proclamando che «la moda è quel che passa di moda», per poi ribadire che «la moda muore giovane», Cocteau traduceva ironicamente l’incessante equilibrismo della moda sull’onda distruttrice del tempo. «La moda non è che il pittoresco guardaroba del divenire, l’effimero maquillage di cui si copre il volto beffardo del Tempo» osserva Mario Andrea Rigoni in Vanità.
Nella moda, in un’incessante metamorfosi, anche il pianto si trasforma in gioiello, come «l’Oeil-de-Cocteau», una bacchetta d’oro da cui penzolava, come una lacrima, una perla. Come ha detto Benjamin, «l’eternità, di sicuro si trova più nella gala di un abito che in un’idea».