Vittorio Sgarbi , il Giornale 30/12/2010, pagina 17, 30 dicembre 2010
Viaggio fra i tesori che l’Italia ha dimenticato - Pubblichiamo alcuni stralci dell’ultimo libro di Vittorio Sgarbi, «Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri» (Bompiani, 360 pagg, 20 euro)
Viaggio fra i tesori che l’Italia ha dimenticato - Pubblichiamo alcuni stralci dell’ultimo libro di Vittorio Sgarbi, «Viaggio sentimentale nell’Italia dei desideri» (Bompiani, 360 pagg, 20 euro). «Non leggerete in questo libro di particolari teorie sulla tutela dell’arte, ma della consapevolezza piena dei nostri tesori che troppo spesso sono guardati con insufficiente importanza, anche nei luoghi più piccoli - scrive l’autore -. Quasi ogni due chilometri, infatti, girando l’Italia, è possibile ammirare, perfino nei luoghi apparentemente più degradati, spettacoli meravigliosi. Ed è questa quantità di cose misconosciute che rappresenta il percorso dell’Italia dei desideri che è proprio, come dice il concetto, il paese che uno vorrebbe sperare ci fosse. E che c’è, se hai la pazienza di scoprirlo ». Insomma, l’Italia è un meraviglioso teatro dove, scrive sempre Sgarbi che immagina il suo viaggio nel nostro paese come la sceneggiatura di un reality show, «solo il sentimento della continua bellezza potrà esserti di guida in quello che non potrai desiderare di vedere in una vita ». *** SAVONA Per capire che a Savona Tuccio d’Andria si trovava bene basta guardare la tavola con lo Sposalizio mistico di Santa Caterina fra i Santi Pantaleo, Pietro martire, Pietro, Bonaventura e Gerolamo, ora nel museo della Cattedrale: una fiera di Santi d’ogni specie, ben protetti nel loro recinto perché niente potesse in alcun modo contribuire ad arricchire o a influenzare il loro carattere. Questo dipinto è così festoso, che tra cherubini, ghirlande, uccelli di varia natura, coralli, ornamenti, intarsi marmorei, sembra di sentirlo suonare, animato da una musica di cui la vivezza dei colori è il più eloquente corrispettivo. Ma Tuccio eccelle nelle notazioni realistiche, nelle mani grosse di San Pietro o nella mano molle di Santa Caterina che il Bambino afferra come per non lasciarla mai più; e poi nei ritratti del committente e della sua famiglia. Piccoli, brutti e un po’ deformi, tutti con il naso all’insù per vedere i loro attori preferiti, pronti eccezionalmente a esibirsi qui a Savona. L’aspetto li rivela infallibilmente della stessa famiglia di Pippo Franco. LUCCA Sentivo talora rammentare il nome di Ilaria. Chi era dunque Ilaria? Un nome sospetto che non mi sembrava appartenere alla letteratura, non al Poliziano amato, non al Tasso, neppure al Metastasio. Un nome quattrocentesco: e non di un’artista, ma di una persona familiare, frequentata, presente. Poi essa si dotò di un cognome, e mi suonava sempre più forte dentro: Ilaria, Ilaria, Ilaria... del Carretto... ancora più sospetto, traballante, plebeo. Eppure, tutto insieme: Ilaria del Carretto, insolitamente poetico. Questo lungo nome, già quasi come un verso, abitò dentro di me molto prima che non l’immagine cui si riferiva e il nome del suo inventore. Quando mi incuriosii di lui non mancò di piacermi, così arcaico e saldo come suonava: Jacopo della Quercia. Poi partii, forse prima di averne osservato una riproduzione, una libresca immagine in bianco e nero: e fu la prima volta che vidi nella pietra qualcosa di simile alle parole, che riconobbi non la bellezza di un’immagine, ma la possibilità che essa potesse abitare in un’immagine, calarsi nel marmo e scaldarlo più che fosse carne. NINFA Ninfa, per quanti da Roma e non solo da Roma si sono spostati verso sud, evoca non la mitologia delle ninfe, o le ninfe di Mallarmé o di Debussy che sono nella letteratura e nella musica, bensì una città. Una città abbandonata, un paradiso dove natura e architettura stanno insieme e l’architettura è diruta. Chiese gotiche, quello che Brandi chiamava «il rudero», ecco Ninfa, luogo a cui io indirizzo la vostra curiosità: per chi lo conosce e per chi non lo conosce. Con l’invito a un viaggio partendo da Roma in meno di un’ora per arrivare a Sermoneta e di lì andando nel paese di Cisterna di Latina, rovinato da un’amministrazione che appunto non avendo la coscienza del bene – che è l’unico valore che coincide con il bene di tutti –invece pensa che chi amministra può fare quello che vuole (...) Tanto più questo appare assurdo, perché è un bene di tutti essendo un Comune e quindi le piazze sono state inquinate da questo architetto, quando uno va tre chilometri più in là a vedere una frazione di Cisterna che è Ninfa, che appunto è proprietà privata di una fondazione, la Fondazione Caetani, nella quale si entra con limitato accesso di pubblico ma che comunque è aperta al pubblico ed è un paradiso meraviglioso che è possibile vedere perché un privato lo conserva con tutte le garanzie di tutela di ciò che la storia ci ha consegnato,senza l’abuso di un sindaco che invece pensa di poter fare quello che vuole nel paese che amministra. Cisterna di Latina è l’inferno rispetto a quel paradiso che è Ninfa. Paradiso privato di proprietà ma aperto al pubblico. E chi non lo ha visto dalle mie parole spero che tragga l’entusiasmo per partire e andare a vederlo. TREIA Chi avesse gustato il profondo piacere di scoprire Treia – magari finendovi per caso nel corso di un viaggio verso un’altra destinazione – avrà certamente avuto l’impressione di vivere un evento del tutto singolare. Treia ci appare come un incidente miracoloso e miracolante, qualcosa di inatteso e di sorprendente, qualcosa a mezza strada tra la percezione della realtà oggettiva e la dimensione atemporale della visione. Si cerca di comprenderla facendo appello alle nostre conoscenze, di leggere ciò che ci si presenta agli occhi per metterlo in relazione con quanto sappiamo, ma non serve a molto. Valadier, artefice come nessun altro della «forma urbis » di Treia, è irriconoscibile rispetto all’architetto del Duomo di Urbino o di Piazza del Popolo a Roma: qui geniale convertitore delle vivacità rococò nelle prime cadenze neoclassiche, lì rispettoso applicatore di un codice tutto dedito all’esaltazione dell’ufficialità e dell’evocazione di un grandioso passato. Alla fine ci rassegniamo, sentiamo che non potremo capire fino in fondo. Treia è un piccolo universo a parte, contiguo al nostro ma irrimediabilmente diverso da esso; è un esperimento di «armonia mundi» che brilla di luce propria, un ideale che si è voluto benignamente mischiare con la contingenza dell’ordinario. Ci sarà sempre qualcosa di Treia che sfuggirà alla nostra logica, alla nostra ossessiva voglia di classificare, di normalizzare, di ridurre tutto a uno schema omogeneo e unitario. Chiamatela magia, suggestione o come altrovolete.L’importante è ammetterne l’esistenza. RAGUSA Sono passati più di vent’anni da quella giornata, credo di settembre, in una Ragusa diversa da quella che oggi rinasce nelle stanze affrescate di un palazzo di costruzione recente. Crea una sensazione di instabilità, di sdoppiamento, come se avessi vissuto due vite. Io sono qui, oggi, con idee e pensieri intatti, freschi, nuovi; ed ero lì, in quel caldo pomeriggio di fine estate del 1987 con Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, vivi, miei coetanei, e non nomi di un libro di storia o di un sussidiario per le scuole (...) Ci stavamo avviando alla prefettura dal Palazzo del governo per un’occasione che oggi avrebbe un diverso senso e non avrebbe la stessa forza anticonformistica di sconvolgimento di luoghi comuni che spinse Sciascia all’impresa quando, durante i lavori di restauro negli ambienti della prefettura, sotto la copertura non so se di stoffe o di carta, riemersero le vaste superficie dipinte da Duilio Cambellotti, ammiratissimo artista, architetto, scultore, mobiliere, pittore. Perché dipinti recenti che erano stati coperti, apparivano ora in perfette condizioni, luminosi e di stanza in stanza splendenti? Perché, cosa che incuriosiva e divertiva Sciascia, negli ambienti di rappresentanza appariva l’immagine del duce e, con lui, altri gerarchi, riconoscibili nei loro volti atteggiati e nelle loro pose marziali, a cavallo, a piedi, contro cieli luminosi, in festa, con fasci e camicie nere, fez. Belle composizioni, e neppure troppo retoriche, e bei paesaggi e campagne dipinti. Non si poteva consentire, allora, che il duce continuasse a essere glorificato. E la «damnatio memoriae» ne aveva imposto la cancellazione. Una imprevista forma di «pietas» aveva indotto i moderni censori (nello spirito peggio dei fascisti) a non cancellare ma semplicemente coprire queste vergognose immagini (...). La rimozione scoperta doveva essere sembrata a Sciascia troppo clamorosa per passare sotto silenzio, occorreva celebrarla e ricordarla. Così nacque L’invenzione di una prefettura , un libro illustrato che l’editore Bompiani intese come un nuovo racconto di Sciascia sia pure mosso come molti altri libri dello scrittore da vicende e fatti reali anche di storia politica e civile. Anche il libro sugli affreschi di Cambellotti a Ragusa nasceva da uno stimolo di una realtà insolita e curiosa e imponeva una riflessione non di pura cronaca ma di pensiero. La rimozione così radicale e l’oblio degli affreschi di Cambellotti poteva avere una più lunga durata e solo il caso aveva consentito di fare una scoperta così curiosa, per il costume per la storia e per la politica. I due, Sciascia e Bufalino, si fecero molti complimenti come due vecchi amici quali erano, felici di avere combinato uno scherzo che ribaltava il senso dell’impresa e riduceva i rischi di critiche faziose. Lo scandalo non erano gli affreschi di Mussolini ma la loro rimozione prima psicologica che fisica, se le condizioni degli affreschi erano così buone. Io, divertito e lusingato dell’invito a presentare il libro di Sciascia, che in molte occasioni mi diede dimostrazione di stima e di amicizia, raccontai della percezione mutata del prevalere della forma sui soggetti e probabilmente parlai dell’eccezionale talento di Duilio Cambellotti e della sua capacità di affrontare soggetti retorici e celebrativi senza rinunciare alla sua stilizzazione delle forme così elegante e frigida da togliere all’esaltazione del fascismo ogni convinta partecipazione. (...) Perché dunque censurarli? Sul dubbio che il coinvolgimento emotivo potesse, allora e oggi, alimentare la retorica fascista, il viatico di Sciascia rende sempre più convincente e inevitabile la sua impresa di restituzione. L’invenzione di una prefettura , appunto. LA SCARZUOLA DI MONTEGABBIONE Che cos’è la Scarzuola? Oggi è una sorta di parco, dove per vent’anni, negli ultimi tre prima di morire (tra il ’78 e l’81), Buzzi abbandonò la sua impresa: questo grande architetto aveva deciso di realizzare una città ideale, quindi di far diventare reale un’utopia. Dietro il convento, in un declivio, in una zona tra colline con spazi anche naturalmente predisposti a essere teatri e anfiteatri, Buzzi ha ricostruito con straordinario gusto antiquariale l’architettura antica, il mondo classico, le suggestioni di Vitruvio, di Borromini, di Palladio, in una serie di edifici, torri, teatri, piramidi e templi antichi che sono davanti a noi. Non sono un disegno, ma invenzioni di Piranesi la cui visione diventa disegno, bensì muri, pietre. E la cosa singolare è che, abbandonato questo luogo, costruita una parte della città l’impresa non è finita. L’erede di Buzzi, il destinatario di questo luogo straordinario, si è sentito come incaricato di continuarlo. Quindi la città continua. È una città antica che ancora oggi è in costruzione per finire gli ultimi edifici, per costruire una lanterna borrominiana. In sostanza un sogno dell’architettura che diventa realtà. E come Buzzi fece fino a un certo limite, oggi il suo erede, Marco Solari, erede in senso non solo materiale (e vigile su questo luogo straordinario), continua l’impresa, continua la città, la quale non è mai finita, è sempre in corso d’opera.