Guido Ceronetti, La Stampa 30/12/2010, 30 dicembre 2010
MA SI’, LA SCALA PUO’ VIVERE
Sono grato a quanti, del ramo, hanno voluto replicare al mio scrittino sulla chiudibilità della Scala. In verità, l’Opera e il Cinema li ho non poco amati, giovanilmente (il cinema di più e più a lungo) e ripudiati in seguito. Ma le critiche ricevute partono da una premessa diversa, la mia concerne la caducità, l’inesorabilità dolorosa del Tempo. Il cinema e l’Opera hanno vissuto: dura invece, per motivi contingenti legittimi o discutibili, la loro sopravvivenza.
Quella del cinema è intossicante, per lo più, quella dell’Opera, come propongono gli stessi sovrintendenti, esige riforme dure, indossare i tagli e se possibile renderli più crudeli, e guadagnarci in sussulti di creatività invece di piangerci sopra. Quanto farà salire la spesa un famoso regista? Quanto pesano gli scioperi ricattatori, specie quando una prima si approssima? Qui un sovrintendente che fosse libero e sovrano (non c’è quasi più nessuno, in Italia), implacabile come il capitano Mac Whirr di Tifone, farebbe questo discorso al personale e agli artisti: «Sarete pagati tutti benissimo, ad una sola condizione: che non facciamo neppure mezz’ora di sciopero per l’intera stagione, perché il bilancio è questo, e ci stiamo appena. Prendi o lascia». Così si affronta una crisi, torcendogli il collo - esemplarmente - senza accattonaggio culturale. Spese culturali alle quali non negherei larghezza di denaro pubblico sarebbero, e con decisione e urgenza, i nostri istituti di cultura all’estero, che mi dicono languescenti. Ma dico, e lo grido, si fa qualcosa per sostenere un patrimonio linguistico mondiale come l’italiano - o nulla?
Si fa qualcosa - o si dà perdente subito, con la complicità orba e perfida dei governi che volendosi di destra dovrebbero qualche cura alla nazione-madre abbandonata al branco, in quel che ha di più luminoso - per la lingua italiana? Venderla all’inglese, con un bilinguismo che ci mutila, che ci prostituisce e avvilisce, è un crimine contro l’anima di una nazione. Difendere la lingua vorrebbe un bilancino di tipo militare, perché ne vale la pena. «Madre infelice, corro a salvarti...». Sì, questo è aver coglie per una causa arcibuona!
Per porre l’insegna integralmente nella sola lingua italiana, un premiolino al negoziante intrepido non sarebbe sprecato.
Per un balletto scaligero di pura creazione (di rottura col repertorio classico allo stremo) lo Stato non sprecherebbe i soldi. Mi resta il dubbio che possa essere introdotto del veramente nuovo nell’immensità spaziale di un palcoscenico tipo Scala, occupato sempre, anche vuoto, dai residui d’anima che l’hanno arroventato in secoli di sofferenza e di ossa curvate indelebilmente ai ruoli, nella stretta schiavizzante dei pentagrammi. Le idee sovversive non prendono, nel recinto operistico, o lo snaturano. In un certo senso l’Opera è inviolabile. Il palcoscenico materiale può modernizzarlo benissimo un grande architetto, come Botta alla Scala, senza rimuovere il blocco invisibile di voci perdute, di anime affannate, di sinfonie avvinghiate alle tavole, di gesti immutabili, di forme-pensiero, che lo caratterizza illuminato o spento. Non so quanto ne sia, di un genere statico come questo, realmente riformabile. Riformare è un po’ uccidere. Conservarlo così è minotauro da soldi; chiede vittime sempre e col tempo di più.
In generale, una cultura come insieme di realtà spirituali e specchio di una lunga storia dell’incivilimento umano (che sempre, toccato lo zenit, precipita nell’imbarbarimento: e qui ci sguazziamo, però da arcipelago), se tenga ancora perché fa turismo e commercio, è morta. Puoi puntellarla quanto ti pare, i crolli ci saranno ugualmente.
Più per motivi morali che economici, l’abito di rigore nei bilanci, in un teatro-minotauro come la Scala, va imposto: anche se lo Stato traboccasse di prosperità, il minotauro non dovrebbe essere saziato. Ma è più facile guadagnarsi da vivere, che aumentare le proprie vivendi causae, che sono la vita vera.