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 2010  dicembre 29 Mercoledì calendario

LA RAPINA AL SUD STRAPAGATA DAL NORD

Il Regno delle Due Sicilie è stato aggredito prima da una banda di irregolari organizzati e protetti da due Stati stranieri (il Regno di Sardegna e la Gran Bretagna) e poi dall’esercito sardo senza una regolare e motivata dichiarazione di guerra, e senza alcuna delle procedure che distinguono il comportamento delle comunità civili da consorzi di predoni e tagliagole. Si sono in seguito addotte le scuse più improbabili: che l’unificazione fosse volontà della stragrande maggioranza della popolazione e che il regime borbonico fosse «la negazione di Dio in Terra» che martoriava i propri disgraziati sudditi.
Come è stato dimostrato dagli avvenimenti successivi al 1860, nessuna di tali condizioni era vera. L’unità era negli auspici solo di una minuscola conventicola di intellettuali e di cospiratori, e i Borbone non erano quella iattura che era stata dipinta. Ma, se anche Francesco II fosse stato un tiranno sanguinario, anche se i suoi sudditi fossero stati sottoposti alle più feroci vessazioni, non sarebbero state buone ragioni per aggredire e annientare uno Stato sovrano, riconosciuto e antico. Il comportamento sardo (e inglese) non può essere giustificato: non occorre neppure inventare o esagerare pregi del governo borbonico per condannare una aggressione che è riprovevole in sé e che lo sarebbe anche seavesseportatoallepopolazioni meridionali ricchezze e felicità.
Forza di occupazione
Che il Meridione non abbia invece ricevuto dall’unità tutti quei vantaggi che in molti si aspettavano e che lo Stato italiano vi abbia per molto tempo esercitato la parte del vessatore più che del liberatore è cosa nota. È sicuramente vero che il nuovo regime si è comportato nel Sud come una forza di occupazione più che di unificazione, ma è altrettanto vero che non è stato molto più tenero in tutte le altre regioni “liberate”. Qui se ne sono percepiti gli effetti con più dolore perché si partiva da condizioni iniziali molto diverse: la tassazione borbonica era mitissima, la leva assai più breve (addirittura sconosciuta in Sicilia), le riserve auree più cospicue che altrove, il percorso industriale appena iniziato e la struttura produttiva assai fragile.
Ciò nonostante, presi dalla foga e da un insopprimibile vittimismo, taluni meridionalisti sulla scia delle esagerazioni di Francesco Saverio Nitti si spingono a sostenere che il Regno delle Due Sicilie fosse addirittura una delle prime potenze industriali d’Europa (c’è chi lo colloca senza esitazione addirittura al terzo posto dopo Francia e Gran Bretagna!), che i suoi opifici fossero in procinto di inondare i mercati internazionali e le sue navi di intasare tutti i porti. Si confondono auspici fantasiosi con una realtà che era assai meno rosea.
A fronte di alcuni punti di eccellenza, il Regno era arretrato, senza vie di comunicazione, senza istituti di credito, senza un tessuto sociale attrezzato, senza un ceto imprenditoriale attivo, con livelli di istruzione assai bassi e una classe dirigente poco propensa al rischio e vocata alla rendita parassitaria. È vero anche che i primi decenni di unità hannovistoloStatoitalianofareinvestimenti soprattutto al Nord, ma questoèspiegabileeragionevole: 1) si trattava in larga parte di progetti infrastrutturali già progettati o addirittura incominciati dai più attivi governi settentrionali; 2) occorreva aiutare l’industria settentrionale che si trovava in situazionepiùcompetitivarispetto al resto d’Europa sia per condi-
zioni proprie che per facilità di collegamenti; 3) gran parte delle spese erano militari (fino al 40% degli investimenti pubblici) e per ovvie ragioni concentrate al Nord. In ogni caso era in Padania che lo Stato riscuoteva larga parte delle tasse. Quindi, dopo la rapina iniziale perpetrata dal governo provvisorio garibaldino e dai primi anni di quello sabaudo si è trattato della scelta di investire dove era più conveniente, di spendere i soldi dove erano raccolti.
Giochi con le cifre
Certo meridionalismo “militante” contemporaneo gioca con le cifre confrontando quanto sarebbe stato sottratto con quello che è stato investito. Qualcuno si è spinto a quantificare in moneta attuale la rapina subita dal Mezzogiorno all’atto dell’unità, quasi sempre omettendo di considerare che una buona parte è stata dissipata al Sud dal governo garibaldino, che parte è andata ai nuovi potentati locali e che anche il Meridione ha dovuto contribuire per quanto di sua competenza (la popolazione meridionale era più della metà di quella totale) alla spesa complessiva del
nuovo Stato. Naturalmente si evita di raffrontare quelle cifre con quelle tolte alle comunità padane allora e soprattutto oggi.
A rimettere un po’ di ordine sui balletti dei numeri e sulle descrizioni un po’ troppo rosee dell’economiaedellasocietàmeridionale pre-unitaria arriva adesso un bel libro di Romano Bracalini (Brandelli d’Italia) pubblicato da Rubbettino, uno straordinario editore calabrese. Vi si chiarisce come l’unità sia stata un affare per certi ceti economici e per la classe politica, ma una catastrofe per le prospettive settentrionali, trascinate sempre più lontano dall’Europa, e per quelle del Meridione, drogato da un flusso di denaro male utilizzato e in larga parte finito ad alimentare parassitismo e malavita. L’unità insomma ha fatto del bene solo alla conventicola di furbacchioni che l’ha inventata.
Il libro riconduce alla verità storica e riporta alle sue giuste dimensioni un fenomeno che viene capziosamente gonfiato da certa pubblicistica meridionalista basata sul “risarcimentismo”, costruito sul principio del «ci hanno voluto e adesso ci mantengano». Si perde l’occasione di effettuare un esame sereno degli
avvenimenti, mettendo così in difficoltà sia i meridionalisti veri sia ogni seria prospettiva di riscatto del Sud.
In ogni caso come si è visto la manipolazione dei numeri risulta ininfluente sui giudizi di merito sulla vicenda risorgimentale e sulla “liberazione” del Meridione. Vale per chi sostiene che il Sud sia stato occupato per succhiarne le ricchezze e anche per chi al contrario giustifica l’annessione con lo stato di miseria e di arretratezza cui porre rimedio.
Il “risarcimentismo”
Niente giustifica l’aggressione. Nessun popolo può essere annesso senza il suo consenso, né per essere rapinato né per essere redento. Questo basta per esprimere giudizi senza il bisogno di sciorinare cifre vere o inventate, che umiliano le aspirazioni autonomiste meridionali sotto un “risarcimentismo” di comodo finalizzato a perpetrare il trasferimento di risorse dalla Padania.
Soprattutto non ha senso come fa qualche meridionalista dell’ultima ora colpevolizzare i popoli padani che di “quel” Risorgimento sono stati vittime come tutti gli altri, ma che, a differenza degli altri, continuano a pagarne il conto anche 150 anni dopo.