MICHELE SMARGIASSI, la Repubblica 29/12/2010, 29 dicembre 2010
LO SCATTO DEL DILETTANTE
"Storia" è la prima parola del titolo del primo libro sulla fotografia: Historique et description des procédés du daguerréotype et du diorama, scritto da Daguerre nel 1839, mentre svelava al mondo la sua invenzione. Fin dalla culla la fotografia ha preteso biografie, per far scordare d´essere una trovatella "abbandonata dalla scienza sulla soglia dell´arte". E le ha avute. La fotografia ha più "storie" che decenni di vita. E ne continua ad accumulare soprattutto ora che, con la presunta "rivoluzione digitale", il medium padre della civiltà dell´immagine è in stato di morte presunta: le biografie, si sa, vengono meglio se il biografato è sepolto.
Sono uscite ultimamante in Italia ben tre imprese storiografiche, due nuove di zecca: Paolo Morello, La fotografia in Italia 1945-1975 (Contrasto) e Walter Guadagnini, Una storia della fotografia del XX e del XXI secolo (Zanichelli); e una rinnovata, Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia (Hoepli). C´era tanto vuoto da colmare?
C´era sicuramente qualcosa di nuovo da dire, ma forse non è stato detto neanche stavolta, benché i nuovi lavori abbiano ciascuno la sua originalità e anche la sua necessità: Morello ricompone in un quadro unitario (non scontato, a volte controcorrente, ma spesso digressivo) la controversa fotografia italiana del dopoguerra; Guadagnini cerca un´identità trasversale nella fotografia mondiale del Novecento. Ma non basta. Perché queste sono storie di una certa fotografia, e non della fotografia.
Sostantivo femminile singolare, Fotografia è un concetto vuoto perché troppo pieno. «Oggetto antropologico», ebbe a definirla Roland Barthes, è di volta in volta sistema, industria, arte, pratica, strumento, medium: troppe cose per tenerle insieme. Infatti la storiografia classica della fotografia nacque all´insegna di una drastica riduzione: al modello della storia dell´arte vasariana. Una premessa storico-archeologica su precursori e invenzione tecnica e poi una successione di grandi autori diligentemente ordinati in epoche, scuole e stili: ritrattisti, viaggiatori, pittorialisti, modernisti, reporter...
Si somigliano tutte, le infinite Storie della fotografia, e tutte ripetono il peccato originale dei loro modelli: sia Beaumont Newhall che i coniugi Gernsheim, gli Erodoto della foto-storiografia, le cui opere scritte settant´anni fa continuano sorprendentemente ad essere testi di riferimento, si basavano sulle immagini e gli autori presenti nelle collezioni di cui erano, di fatto, il catalogo (rispettivamente quelle del MoMa e quella personale di Gernsheim). Su queste fonti ristrette si plasmò un canone mai messo seriamente in discussione dagli epigoni. Che tuttalpiù hanno aggiunto o tolto nomi al medagliere, magari quando si trova l´archivio di qualche "genio sconosciuto": ecco negli anni Trenta la "scoperta" di Atget, nei Settanta di Bellocq (fotografo delle prostitute di New Orleans), negli Ottanta di Disfarmer (ritrattista dell´America di provincia) e recentissima quella di Miroslaw Tichy, visionario vagabondo Ceco.
Ma il sistema della fotografia non è un Olimpo generoso che accoglie ogni tanto nuove divinità. Le foto che per gli studiosi "hanno fatto la storia", le "Gioconde" della fotografia, i ritratti di Nadar, il Miliziano di Capa, la Madre migrante della Lange e via iconizzando, sono solo un´infima minoranza rispetto ai miliardi di fotografie che il mondo ha visto e ha amato davvero in questi centosettant´anni.
La fotografia che, dopo la rivoluzione Kodak, ha riempito la vita di milioni di famiglie non è quella che si vede nei musei: è quella dei weekend di vacanza, degli album di famiglia, delle prime comunioni, dei viaggi; le fotografie che hanno davvero divertito o emozionato milioni di persone non sono i ritratti sfocati della Cameron o le solarizzazioni di Man Ray, sono le radiografie ai polmoni, i ritratti degli amanti e dei figli tenuti nel portafogli, le foto segnaletiche dei criminali, e perché no le cartoline erotiche vendute sottobanco; le foto più viste oggi non sono i giocattolini concettuali di artisti annoiati ma i sette milioni di scatti di fotofonini caricati ogni giorno su Facebook.
È qui che il modello della storia dell´arte crolla miseramente: di fronte all´ingombrante carattere di massa del fenomeno fotografia, ignorato o trattato come sottocultura amatoriale, come le storie dell´arte trattano i naïf e i pittori della domenica. Ma anche il meno dotato dei pittori quando prende in mano un pennello si sente un artista, e il più modesto acquerello ha sempre il marchio di una kunstwollen, una volontà d´arte; invece masse immense di persone scattano foto senza alcun interesse per le loro qualità espressive e formali, come puri oggetti d´uso, memoria e affezione.
Fare la storia della fotografia è raccontare come la tecnologia ha trasformato ognuno di noi in un produttore e assieme in un consumatore di immagini operative e non speculative. Non basta un capitoletto di "scenario sociale", quel che manca clamorosamente alle storie della fotografia è una visione globale del fenomeno culturale che sarebbe ora di chiamare, con Rosalind Krauss, "il fotografico".
Non sarebbe meglio rinunciare del tutto alla pretesa di una storia universale della fotografia? No, perché la galassia del "fotografico" ha ancora qualcosa che la tiene insieme: la magia del prelievo di una realtà percepita e il mito della sua restituzione integrale in forma di segno. E questo vale per Cartier-Bresson a caccia di "istanti decisivi" come per l´adolescente che si autoscatta nello specchio del bagno. Bisognerebbe allora avere il coraggio di rovesciare il tavolo di lavoro, come fece con irriverenza senza eredi quel guastafeste di Ando Gilardi con la sua Storia sociale della fotografia, relegare sullo sfondo i "grandi nomi" sopravvalutati e ripartire da una storia degli usi di massa, degli scambi, degli investimenti sociali ed emotivi che la fotografia continua a veicolare. Servono storici del presente per capire la gigantesca condivisione planetaria in corso su Internet, vera rivoluzione nella civiltà delle immagini. Se non riusciremo a metterlo in prospettiva critica, questo flusso di immagini senza qualità ci travolgerà col suo illusorio eterno presente.