Marc Augé, Corriere della Sera 29/12/2010; Erika Dellacasa, ib.; Viviano Domenici, ib.; Melisa Garzonio, ib., 29 dicembre 2010
MAL D’AFRICA
L’AMBIVALENZA DEI GRANDI VIAGGIATORI VERSO I REPERTI DI UN «ALTRO» UNIVERSO - Che cosa cerca il collezionista? La domanda riguarda al tempo stesso l’individuo e la collettività. Esistono collezionisti che esercitano la propria curiosità e soddisfano le loro pulsioni a partire da temi e oggetti molto diversi: francobolli, ma anche scatole di fiammiferi o automobili in miniatura. Nelle collezioni individuali si coglie la duplice e contraddittoria aspirazione che anima ogni volontà di «raccolta» : quella all’esaustività e alla rarità. Si tratta di possedere la serie completa oppure l’oggetto al quale l’estetica, le condizioni della scoperta o un’altra circostanza conferiscono un prestigio particolare, un carattere di singolarità.
Questa duplice aspirazione è presente anche tra i collezionisti che hanno esercitato la propria attività lontano da casa, in territori esotici in cui ogni particolare poteva risvegliare l’interesse dei viaggiatori e di coloro ai quali al termine del viaggio sarebbero state mostrate le acquisizioni. Attraverso gli oggetti che presentano al pubblico, i grandi viaggiatori danno una testimonianza di se stessi e del proprio percorso, della loro curiosità ma anche delle popolazioni che sono andati a visitare. Due forme di testimonianza assolutamente legate: la qualità degli oggetti proposti all’ammirazione del pubblico dimostra o intende dimostrare che i viaggiatori collezionisti hanno avuto ragione a partire. Perfino i viaggiatori o gli invasori più convinti della loro superiorità hanno quindi sempre espresso una certa stima nei confronti di coloro la cui cultura materiale andavano a inventariare ed eventualmente saccheggiare: una stima che avrebbe dovuto determinare quella di cui essi stessi intendevano beneficiare. In alcuni casi a questa apparente contraddizione era sottesa la convinzione che le opere valessero più dei loro autori o persino che non si dovesse parlare di veri e propri autori e che la cultura materiale non fosse altro che l’espressione spontanea di una cultura più generale infinitamente superiore a ciascuno degli individui a essa collegati. Da ciò l’uso comune dell’articolo determinativo per parlare di questi artisti, quasi fossero solo l’espressione di una cultura che trascendeva la loro esistenza individuale: agli albori dell’etnologia si parla spesso di entità essenziali, generiche, come il Dogon, il Bambara o il Melanesiano.
Vi è quindi una doppia ambivalenza — esaustività/rarità e disprezzo/stima— che si ritrova nelle operazioni più sistematiche di raccolta di elementi tipiche delle spedizioni come la Dakar/Djibouti, durante la quale, sotto la tutela di Marcel Griaule, tutta una generazione di etnologi francesi ha contribuito a rifornire gli scaffali del Musée de l’homme di Parigi.
A tale proposito si può notare che qualche aspetto di questa doppia ambivalenza si ritrova nei dibattiti a proposito dei musei e delle mostre, che a volte ancora oggi vedono opporsi gli «etnologi» , i quali identificano negli oggetti in primo luogo la testimonianza della vita materiale e simbolica degli individui e dei gruppi, e gli «esteti» (o i mercanti), i quali sottolineano l’interesse artistico di questo o quel pezzo.
Tuttavia è giusto pensare che col tempo— anche senza metterle da parte — l’intensità delle opposizioni e l’acutezza dei dibattiti si attenueranno di fronte all’evidenza di una storia comune. Oggi sappiamo che in Africa ci sono sempre stati scultori conosciuti, le cui opere erano apprezzate dal pubblico in funzione della loro estetica, poiché un bell’oggetto aveva buone possibilità di essere anche un buon oggetto; non vi è quindi alcuna ragione di contrapporre l’approccio etnologico a quello estetico. Sappiamo che l’essenzialismo che ha talvolta caratterizzato la prima fase dell’etnologia ha fatto ormai il suo tempo ed è stupido opporre le opere ai loro creatori. Sappiamo che anche i viaggiatori-collezionisti di pezzi autentici hanno fatto il loro tempo, sostituiti dai turisti e dagli oggetti in serie creati per loro dall’industria del turismo. Sappiamo che esiste un mercato dell’arte che non obbedisce ai criteri estetici né a quelli etnologici, ma alle leggi del mercato. Sappiamo infine che l’occhio con cui l’Occidente ha guardato alle terre lontane ed esotiche può essere oggi l’oggetto del nostro sguardo e che attraverso gli oggetti venuti da lontano molto tempo fa noi non intravediamo soltanto gli elementi dispersi di altre culture, ma anche i frammenti sparsi della nostra storia.
Marc Augé
LE OMBRE LUNGHE DELL’EMOZIONE CONTRO I FANTASMI DEL FOLCLORE - Le sculture-scale dei Dogon, i feticci dell’Africa subsahariana, le Bundu, maschere-elmo della società segreta femminile Sande della Liberia, le colorate bandiere delle compagnie paramilitari Asafo dei Fante del Ghana, gli Iibej yoruba del Camerun, feticci che rappresentano coppie di gemelli e sono accuditi come veri bambini perché i gemelli sono ritenuti un canale per raggiungere il mondo dell’invisibile. Trecento pezzi rari, pezzi da collezione, che raccontano l’Africa e la sua arte in esposizione a Palazzo Ducale e al Castello d’Albertis di Genova dal 31 dicembre al 5 giugno. Il bianco, il rosso, il nero, la triade cromatica dell’arte africana, ha ispirato l’allestimento dell’artista Stefano Artieri: il bianco delle pareti, il rosso e il nero dei tappeti, il nero delle ombre che duplicano impalpabilmente le statue, le maschere, i pali funerari, le bandiere. La sfida era esporre oggetti insieme fortemente emotivi e stilisticamente essenziali, evocatori di confuse e ammalianti nozioni su stregoni e magia nera, liberandoli dalla patina del pregiudizio e del folklore. La forza delle opere esposte— basta osservare la potente bellezza delle maschere che catturano lo sguardo in modo quasi ipnotico— raggiunge già il bersaglio ma l’intervento di Artieri (l’artista utilizza libri manipolati, piume bianche che ricordano i sacrifici, ombre) sottolinea la complessità di quest’arte nel segno del doppio. Ogni oggetto ha una storia duplice, la sua e quella dell’incontro con il collezionista che l’ha amato. La storia delle origini e quella della relazione con un mondo «altro» .
«Abbiamo voluto titolare la mostra "L’Africa delle meraviglie"— spiega una delle curatrici, Giovanna Parodi da Passano, docente di culture ed estetiche dell’Africa all’Università di Genova — richiamandoci alle raccolte di mirabilia, ai cabinet umanistici e rinascimentali che collezionavano oggetti portentosi, curiosi, magici con il fascino della diversità e del mistero» . Una fascinazione che— ad altro livello — le avanguardie pittoriche del Novecento riscopriranno nei confronti delle soluzioni formali dell’arte africana, dopo i secoli bui dello schiavismo, del disprezzo e della negazione dell’umanità di un intero popolo.
Un’arte, quella tradizionale dell’Africa, che rimane indissolubilmente legata per l’occhio e per l’immaginario dell’Occidente alla magia, l’occulto, le forze primordiali: anche questo è un tema di riflessione proposto dalla mostra. L’arte africana e il suo fantasma. L’immaginario africano e quello dell’Occidente. La mostra è anche un’occasione per visitare il Castello d’Albertis che ospita il museo etnografico di Genova ed è uno straordinario esempio di architettura eclettica, con tanto di ponte levatoio e torri merlate.
La fine dell’anno dedicato nel mondo all’Africa (ma forse troppo poco si è avvertito questo impegno) si festeggia a Palazzo Ducale con l’apertura della mostra e con un Capodanno «africano» che unisce l’arte del Continente Nero esposta nelle sale dei Dogi ai suoni dell’Africa contemporanea, con il gruppo MoZuluart i cui musicisti interpretano Mozart in chiave tribale accompagnati da un quartetto di archi della Filarmonica di Vienna. E il collegamento con l’Africa di oggi è affidato ad altri suoni e altre immagini, come la proiezione del video di un onirico regista nigeriano, espressione di quella Nollywood che segue, come fenomeno, la Bollywood indiana, una cinematografia in vitale, e anche un po’ caotica, espansione. Potente, antica e modernissima, come l’Africa.
Erika Dellacasa
QUELLE MASCHERE CHE SVELANO L’ANIMA - Definire l’ arte africana è cosa difficile, forse impossibile. I primi ad ammetterlo sono gli stessi specialisti del settore che, da quasi cent’ anni, s’ affannano a cercare almeno un’ etichetta condivisa che permetta loro di parlare della sostanza. Finora si sono destreggiati tra arte africana, arte primitiva, arte tribale, arte etnica e altre definizioni tutte inadeguate, se non improprie, fino a lasciare letteralmente senza parole chi vuole visitare una mostra e sapere che cosa sta guardando.
In realtà per risolvere il problema basterebbe accogliere a pieno titolo l’ arte africana nel capitolo Arte senza aggettivi ma, dato che questa difficoltà evidentemente esiste, proviamo a esaminare alcuni degli ostacoli linguistici per capire se è possibile superarli.
A meno che non si tratti di una generica indicazione di provenienza, l’ etichetta «arte africana» è inapplicabile. In Africa sono fiorite decine di culture diverse che hanno creato opere con caratteristiche formali molto differenti tra loro e non confusamente simili, come appare al nostro sguardo europeo. Ciò dipende sia dalla nostra scarsa conoscenza delle varie culture, sia dal fatto che l’ idolo, il feticcio o la maschera non furono realizzati «per fare arte», ma per assolvere una funzione pratica, religiosa o sociale, che impose precise caratteristiche formali; un vincolo questo che comunque non impedì ai veri artisti di trasformare le loro creazioni in opere d’ arte. Altro problema da affrontare è che il «bello» ricercato dall’ artista africano può non essere lo stesso che noi cerchiamo nella sua opera. L’ opera africana, infatti, doveva prima di tutto essere «buona» per la funzione a cui era destinata e per lo spirito che la abitava; il «bello», casomai, era una componente del «buono»; questo spiega come in certi casi, nei feticci ad esempio, sia il «brutto» a far sì che l’ opera sia «buona», ottimale, per il compito assegnatole.
Sbagliato anche definire l’ arte africana «primitiva». Tutti gli uomini, ovunque vivano e qualunque sia l’ organizzazione sociale che hanno adottato, hanno un passato fatto dello stesso numero di millenni; la loro arte quindi non può essere definita più o meno «primitiva» perché ha la stessa età in tutto il Pianeta.
Tra le figure dipinte quasi trentamila anni fa nel deserto del Kalahari e le pitture su stoffa dei pigmei del Congo ci sono esattamente gli stessi trentamila anni che separano i dipinti rupestri francesi dalle Madonne dei pittori senesi. L’ impressione di «primitivismo» è data dal diverso percorso seguito dalle culture africane e dalla nostra tendenza a collocare linguaggi artistici a noi estranei in un limbo espressivo balbuziente, barbarico e selvaggio; una visione ignorante e razzistica dell’ arte degli «altri».
I principali soggetti dell’ arte africana sono le figure umane e le maschere, che spesso mescolano forme umane e animali. Le figure rappresentano soprattutto antenati grazie ai quali l’ uomo africano mantiene un rapporto costante con il mondo dei morti che gli assicura un’ alleanza in grado di contrastare le forze del male.
Le maschere invece - ha scritto il francese Max-Pol Fouchet - «sono manifestazioni dell’ immaginazione allo stato puro» che prestano un corpo materiale e visibile alle forze soprannaturali, agli spiriti che interagiscono con la vita degli uomini. Di fatto la maschera annulla la persona che la indossa e «rende presente» lo spirito invocato nell’ occasione, tramite caratteristiche formali, deformità e commistioni uomo-animale perfettamente note e accettate dalla comunità.
Ma con quali occhi possiamo scrutare questo mondo in cui si muovono entità invisibili? Come è possibile ascoltare messaggi tanto oscuri e distanti? Non è possibile, è bene saperlo. Estratti dal contesto sociale e religioso che li produsse, e portati nelle gallerie e nelle case dell’ Occidente, dice l’ antropologo Ivan Bargna, gli oggetti d’ arte africana sono stati «immobilizzati, neutralizzati, messi a tacere», e così spogliati si sono trasformati in oggetti solo da guardare; ma spesso in capolavori di prima grandezza. Di questa drammatica amputazione, ormai insanabile, dobbiamo essere consapevoli per poi lasciarci prendere dallo stupore per la forma; smettendo anche di dire sembra Braque, pare Picasso, ricorda Modigliani. Non è così e lo sappiamo da un secolo: furono le avanguardie artistiche dell’ Occidente a guardare l’ art nègre che, col suo apparire in Europa, disarticolò per sempre la nostra percezione del bello, tanto che da allora «l’ arte occidentale non è più stata la stessa».
Viviano Domenici
LA COLLEZIONE DELLO STILISTA CHE FA SFILARE L’ARTE «NERA» - Arrivati a Capriate San Gervasio, basta chiedere. La Collezione Carini? «È in piazza della Vittoria, davanti al Comune» , spiegano tre studenti del corso di antropologia alla Statale di Milano, reduci da una mattinata «full immersion» nella Biblioteca delle arti e tradizioni africane, il più importante centro di documentazione sull’arte «nera» in Italia, di cui è proprietario e fondatore il milanese Vittorio Carini, stilista di moda convertito al collezionismo etnico.
Oltre settemila volumi, testi originali, edizioni uniche, per amatori e specialisti, fra i gioielli anche un libro assai raro scritto nel 1873 dal botanico e antropologo tedesco Georg Schweinfurth, il cui pomposo titolo latino, «Artes Africanae» , spicca sulla copertina dei «Quaderni» che Carini e un gruppo di studiosi pubblicano due volte all’anno per la gioia degli appassionati, raggiungibili anche attraverso un sito web: www. artesafricanae. org.
Bassa bergamasca, l’Africa profonda abita qui. A rappresentarla, oltre alla biblioteca e alla collezione (altrettanto sterminata) di Carini, che alla mostra di Genova esporrà una quarantina di oggetti, ci sono anche il Museo Caffi, nella città alta di Bergamo, e il Museo africano di Urgnano. «Benvenuti, dunque, nel triangolo della cultura africana» , sorride Vittorio Carini, mentre apre il portone del palazzo settecentesco acquistato nel ’ 91 (la biblioteca, al pianoterra, è aperta dal ’ 94), perché «bello e, soprattutto, capiente» . Attraversiamo un cortile-giardino, quasi un orto concluso raccolto intorno a un’immensa magnolia, «del verde e dei libri si occupa mia moglie Anna» , poi una rampa di scale, «attenti ai rami del glicine e ai gatti che vi fanno lo sgambetto» (ne abbiamo contati cinque), e approdiamo sull’ «isola che non c’è» : una casa che è Africa nera, condivisa dalla coppia Carini con statue, maschere, feticci, ornamenti, zufoli, pettini, armi, scudi, contenitori di oggetti magici, conchiglie, baffi di scimmia, denti di leopardo, e altri strabilianti reperti «noir» databili tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, dal Bénin, Niger, Congo, dal Mali e dalla Costa d’Avorio. Sono manufatti in legno di mogano o iroco, chiari o scuriti con essenze, usati per lo più nelle cerimonie rituali. Le patine in superficie derivano dal toccamento ossessivo dei fedeli per ingraziarsi il favore degli spiriti. Sono reperti relativamente giovani: non hanno più di 200 anni, gli insetti xilofagi, il caldo, l’umidità, non consentono una durata maggiore. «Ma ci sono pezzi Dogon retrodatabili fino al 1500, 1400— spiega il collezionista— l’habitat protetto delle grotte li ha preservati dal disfacimento» .
Prosegue, infervorandosi: «Non è splendida questa statua Senufo? E questa maschera Mano? Ha un viso bellissimo, il caschetto a treccine in fibre vegetali, i denti brillanti, il metallo di cui sono fatti ha un significato apotropaico, serve a tenere lontani gli spiriti maligni. La striscia in caolino bianco, sugli occhi, è un segno di morte. Non sembra un Modigliani nella sua stilizzazione estrema?» .
Siamo davanti a un capolavoro di Arte negra? Domanda sbagliata. Carini se l’aspettava. «No e poi no. Come disse Picasso: "Art nègre? Non, je ne connais pas". Niente è decorativo in un pezzo africano, niente è volutamente artistico, c’è sempre un senso nascosto in ogni cosa che vediamo. Un valore intrinseco che va oltre l’estetica» .
È possibile realizzare un sogno? Vittorio Carini è convinto di sì. Il suo l’ha tolto dal cassetto che era ancora un ragazzino. «Avevo dei parenti a Parigi, spesso ero loro ospite. Mi incantavano le gallerie del Quartiere Latino che vendevano arte africana. La prima "morsicata" l’ho sentita davanti a una statuina nera esposta al Musée de l’Homme, che allora era in Place du Trocadéro» . Mal d’Africa in forma acuta? «Ero giovane. A 23 anni sono partito per il mio primo viaggio nel continente: Congo, Mali, Togo. La passione divenne incontrollabile. Tornato a Parigi, cominciai a comprare dai rabatteurs africani che vendevano all’Hotel Molière, a l’Odéon. La prima cantonata fu una bellissima statua Senufo, un falso raccapricciante. Mai fidarsi dei propri occhi. Comprare solo pezzi autenticati da professionisti al di sopra di ogni sospetto» . Il pezzo che ancora le manca? «Non esiste un Gronchi Rosa: non collezioniamo francobolli. Compriamo solo quando una cosa ci piace, in maniera irresistibile» .
Melisa Garzonio