Paolo Foschini, Corriere della Sera 29/12/2010, 29 dicembre 2010
«IO INFILTRATO FECI DA PADRINO AL FIGLIO DEL BOSS» —
Se la sua vita fosse un film, e non è detto che non lo diventi, comincerebbe forse dalla fine. Con l’inquadratura di lui seduto in quello che ormai da qualche anno è il suo ufficio, al comando della stazione carabinieri di un paesotto vicino a Monza, dove il suo passato non lo conosce nessuno. Ha appena letto i giornali con le motivazioni che hanno portato alla condanna del generale Giampaolo Ganzer per i suoi «accordi scandalosi» coi narcos. «Accordi scandalosi...» , mormora tra sé, non si capisce se con una smorfia o un sorriso. E con la mente torna indietro, a quando l’infiltrato tra i narcos era lui, come quella volta che per incastrare un boss colombiano ne divenne fidato al punto— «ho vissuto con lui due anni, di’ pure amico» — da esserne scelto come padrino di battesimo del figlio: salvo andare a sostenerne lo sguardo per testimoniare contro di lui, quando fu arrestato a Miami. «Certo che ne ho fatte — dice — di operazioni con Ganzer. E sono tutte finite bene, pulite e senza complicazioni giudiziarie se non per i trafficanti di volta in volta condannati. Non so niente di quelle per cui è stato processato lui, né voglio parlarne. Ma so che sotto inchiesta ci sono finito un’infinità di volte anche io, per operazioni dove lui non c’entrava: nessuna che sia mai arrivata a un processo. E dico una cosa semplice: l’infiltrato lo si può fare anche rispettando la legge, non c’è dubbio, ma è un dato di fatto che le leggi italiane non aiutano. Andrebbero adeguate a quelle americane, perché la lotta al narcotraffico è globale» .
Undercover dal ’ 90 al 2000, uno dei primi in Italia, fino al suo rientro nella «normalità» previa anni di psicoterapia per ritrovare la sua «vera» vita e identità. «Al primo corso eravamo dieci carabinieri, dieci poliziotti e dieci finanzieri — racconta — e il corso erano venuti a farcelo appunto gli americani della Dea: le tecniche sono le loro, non ce n’è. Compreso il fatto che anche noi non decidiamo una operazione sotto copertura necessariamente sulla base di una "notizia"di reato, come alcuni continuano a credere, bensì sulla ragionevole certezza che infiltrarsi in un certo ambiente criminale porterà al raggiungimento di tre obiettivi: arresto dei componenti, sequestro della droga, sequestro dei soldi» . Fa una pausa, e poi precisa: «Il tutto con l’autorizzazione del Ministero, del Servizio centrale antidroga, e del magistrato» . Gli americani, in più, il narcotraffico possono fingere di organizzarlo. Ma non è solo questo.
«Falco» è il nome di battaglia con cui di recente, dopo una vita nell’anonimato, aveva accettato di farsi raccontare nel libro del giornalista Carlo Brambilla (L’infiltrato, Melampo editore): una biografia in cui ogni dettaglio sembrerebbe da romanzo se non fosse che è vero, dalla «vera» identità del «finto» manager Mario Bottari, con ufficio in via Washington a Milano, macchine, segretaria, sino ai festini dall’altra parte dell’oceano, con la fatica insita nel voler comunque restare «nei secoli fedele» a uno Stato che «da una parte ti chiede giustamente di mettere le mani nella merda al suo posto» e dell’altra «è pieno di gente che parla senza avere la minima idea dell’impegno che tu comunque ci metti per non sporcarti» . O per salvarti la pelle, più spesso ancora quella dei tuoi confidenti: «Poi dopo è facile — dice — accusare qualcuno di gestirli in modo "allegro"per soldi o altro, i confidenti. Insisto, le cose si possono fare pulite. Ma le leggi dovrebbero renderlo più facile, non complicarlo» .
Invece, ripete «Falco» . E fa un esempio: «Supponiamo che un mio confidente mi dia un contatto per comprare dieci chili di coca. Ora, se io voglio essere un compratore credibile, il minimo è che chieda un assaggio prima: e diciamo che di lì a qualche giorno me ne portano un grammo. Ecco: se io volessi rispettare la legge italiana dovrei sequestrare quel grammo e arrestare tutti lì e subito, oppure chiedere il permesso di un "ritardato arresto"per lasciare che il cerchio si chiuda. Il problema è che se per caso l’affare salta, magari dopo un mese di trattativa, io a quel punto dovrei comunque tornare indietro e arrestare il pusher di quel grammo, che non resterebbe in galera un istante, mentre il mio confidente me lo ritroverei non solo bruciato ma più probabilmente secco» . È solo un esempio o è capitato? «A me? Di dover decidere che fare? Certo che sì: e mi sono sempre regolato a modo mio. Non me ne sono mai pentito: l’operazione iniziava, l’operazione finiva, arresto dei trafficanti, sequestro della droga, sequestro dei soldi, punto» . Pausa: «E non ho mai partecipato a una conferenza stampa» .
Paolo Foschini