Francesca Vaccarino, TuttoScienze - La Stampa 29/12/2010, 29 dicembre 2010
«Insegno ai robot a vedere il mondo» - Ci vorrà ancora una trentina d’anni, ma per allora sarà possibile avere un robot maggiordomo, magari un simpatico rompiscatole come «R2D2», il robot dorato di «Guerre Stellari»: parola di Tomaso Poggio, fisico italiano, co-direttore del «Center for Biological and Computational Learning» presso il McGovern Institute for Brain Research al Massachusetts Institute of Technology di Boston, il famoso MIT
«Insegno ai robot a vedere il mondo» - Ci vorrà ancora una trentina d’anni, ma per allora sarà possibile avere un robot maggiordomo, magari un simpatico rompiscatole come «R2D2», il robot dorato di «Guerre Stellari»: parola di Tomaso Poggio, fisico italiano, co-direttore del «Center for Biological and Computational Learning» presso il McGovern Institute for Brain Research al Massachusetts Institute of Technology di Boston, il famoso MIT. Sessant’anni, genovese, Poggio ha lasciato l’Italia 40 anni fa per il Max Planck Institut fuer Biologische Kybernetik di Tubinga, poi, nel 1981, è approdato negli Usa. Ha lavorato con Francis Crick, premio Nobel per la scoperta della struttura del Dna con Jim Watson, e insieme con Marvin Minsky e John McCarthy è considerato tra i «padrini» dell’Intelligenza artificiale. Professore che cos’è l’intelligenza artificiale? «E’ una disciplina che ha come scopo quello di riprodurre l’intelligenza umana mediante una macchina». Può fare un esempio? «Costruire una macchina che vede, nel senso che riconosce le cose, le distingue e può descrivere l’immagine oppure un video». Sembra una prospettiva un po’ fantascientifica. «Quarant’anni fa era così. Oggi non lo è più. Ad esempio un mio studente, Amnon Shasha, ha fondato una società in Israele, chiamata MobilEye, che produce un sistema di visione per automobili capace di riconoscere e di evitare incidenti. Adesso sta cominciando a essere installato su alcuni modelli europei di lusso». Ci sta dicendo che la vista è una forma d’intelligenza? «E’ forse la più avanzata che abbiamo. È il frutto di molta più evoluzione di quanto non sia la nostra parte logica e linguistica. Bisogna dire che qui siamo di fronte ad un paradosso abbastanza interessante: quello che è facile per un computer è difficile per noi e viceversa. Un computer, per esempio, può eseguire milioni di operazioni aritmetiche ogni secondo e per noi è impossibile. Viceversa noi cuciniamo, mentre al momento ciò è impossibile per un computer. I compiti quotidiani, e banali, che un essere umano svolge sono difficilissimi da far eseguire a un computer. Definire che cosa sia l’intelligenza o la coscienza è da sempre una questione affascinante, sia da un punto di vista filosofico sia scientifico. Prima di Turing qualunque filosofo poteva formulare una teoria della mente o di una parte dell’intelligenza, ma non c’era modo di accertarne la verificabilità e la consistenza». E ora? Sta dicendo che i computer hanno cambiato l’approccio allo studio dell’intelligenza? «Infatti: ora possiamo verificare, fare esperimenti. Possiamo dire che, se un programma supera un certo test - il Turing test - allora è intelligente. Supponiamo, per esempio, di scambiare dei messaggi con un computer. Se non riusciamo a distinguerlo da un essere umano, possiamo definirlo intelligente. Un esempio è che una teoria sul funzionamento dell’intelligenza visiva si può verificare implementandola in una macchina: se quest’ultima riconosce gli oggetti con un livello di abilità simile al nostro, la teoria supera il test». Ma, in pratica, quale è l’approccio che si sta rivelando vincente? «In fondo basta imitare la natura. Invece che costruire un modello esplicito, sul tipo di quello dei sistemi esperti, abbiamo lavorato sull’apprendimento. Così abbiamo sviluppato sistemi basati sul cosiddetto “machine learning”, con cui la macchina impara da un grande numero di esempi ciò che è giusto oppure sbagliato e apprende anche come approssimare le risposte corrette per analogia con gli esempi. Alla fine non abbiamo un modello analitico, ma un sistema che è in grado di “prevedere il futuro” in modo simile a noi». Negli ultimi decenni c’è stata u n ’ e s p l o si o n e delle neuroscienze, favorita in particolare da nuovi mezzi d’indagine come quali la risonanza magnetica funzionale. Come ha influito questa rivoluzione sul mondo dell’intelligenza artificiale? «Certamente molto. Prima dello sviluppo delle neuroscienze l’intelligenza artificiale era dominata da un approccio incentrato sullo sviluppo del computer. Negli ultimi anni, invece, le informazioni che stiamo acquisendo sul funzionamento della mente, anche da un punto di vista funzionale e quantitativo, si rivelano una straordinaria fonte d’ispirazione e di conoscenza anche per chi cerca di riprodurre l’intelligenza umana». Bisogna dire che l’intelligenza artificiale era di gran voga negli Anni 60 con l’avvento dei primi veri computer. Poi il tema è ritornato in ambienti più rarefatti. Qual è la situazione ora? «Grazie al raggiungimento di potenze di calcolo e capacità di archiviazione impensabili nel passato si è aperta una nuova fase, segnata da un grande entusiasmo. Il sogno degli Anni 60 si era scontrato con limiti tecnologici che oggi abbiamo ampiamente superato. A questo proposito, al MIT, è appena partito un nuovo grande progetto, chiamato “The MIT Intelligence Initiative”. E’ un modo per organizzare tante competenze, le più disparate, dalla computer science alla neuroscienza, fino alle scienze sociali e manageriali. L’entusiasmo è grande. Io penso che ci siano le condizioni per gettare le basi di un salto decisivo verso la realizzazione di macchine pensanti». Si tratta di progetti ambiziosi: dove si trovano tutti i soldi necessari? «Negli Stati Uniti molti fondi provengono dai privati. Comunque, da quando c’è il presidente Barack Obama, i finanziamenti per la ricerca fondamentale non mancano. Purtroppo negli States sappiamo che, invece, l’Italia - diversamente dalla Germania, dalla Francia e persino dell’Inghilterra, tutte nazioni dove l’investimento nella ricerca si prevede in aumento - è un vero e proprio disastro. Eppure investire nella ricerca è l’unica strategia per competere nel futuro prossimo con le tigri asiatiche. Spero che la situazione cambi presto. Io sono italiano, mi sono laureato a Genova: so che vi meritate di meglio».