FRANCESCA PACI, La Stampa 29/12/2010, pagina 19, 29 dicembre 2010
Somalia, gli invisibili di via dei Villini - Mohamed Ali G., stretto nel giubbino impermeabile senza imbottitura, legge il discorso in inglese dell’ex presidente somalo Siad Barre, 5 gennaio 1987, tre anni esatti dopo la sua nascita
Somalia, gli invisibili di via dei Villini - Mohamed Ali G., stretto nel giubbino impermeabile senza imbottitura, legge il discorso in inglese dell’ex presidente somalo Siad Barre, 5 gennaio 1987, tre anni esatti dopo la sua nascita. «L’ho trovato lì dentro tra i cartoni, ho dovuto strapparlo a un topo grande così» dice indicando il portone sgangherato a ridosso del patio dove asciuga al pallido sole l’umidità assorbita nella notte senza vetri alle finestre. Da quando nel 1990 lo Stato somalo si è disintegrato in mille guerre civili l’ambasciata di Roma, una palazzina primonovecentesca nell’opulenta via dei Villini, è sospesa in un limbo giuridico e umanitario, terra di nessuno dove da almeno dodici anni trovano riparo i profughi di Mogadiscio. All’inizio i dipendenti in liquidazione hanno provato a organizzare l’accoglienza, ma l’ambizione diplomatica è durata il tempo di realizzare che passata la tempesta non ci sarebbe più stata una patria in cui tornare: l’unica regola oggi è il bisogno e l’unico obiettivo la sopravvivenza. «Sono arrivato nel 2008 dopo un viaggio di un anno attraverso il Kenya, l’Uganda, il Sudan e la Libia, mi è costato 4000 dollari sbarcare a Lampedusa e ritrovarmi qui» racconta il ventiduenne Abdelkarim A. nell’italiano forbito che ha imparato dal padre insieme al mestiere di autista. La padronanza della lingua lo responsabilizza. È lui a fare strada nelle stanze maleodoranti con tappeti di materassi sul pavimento precario e brandelli di broccato alle pareti. Ogni tanto estrae dalla tasca della felpa la plastica in cui custodisce il libretto verde con la scritta «titolo di viaggio per stranieri», la prova della sua identità apolide. Non può essere espulso come nessuno dei circa trecento che vivono con lui, ma non ha altra collocazione possibile che questa isola extraterritoriale sottratta dai cipressi incolti allo sguardo degli abitanti del quartiere, riluttanti anche solo a camminare sullo stesso marciapiede. «Tutti i somali che si trovano nell’ex ambasciata hanno il permesso per protezione sussidiaria, quello concesso a chi non ha subito persecuzioni individuali ma proviene da un contesto di guerra e non può essere rimandato indietro» osserva Laura Boldrini, portavoce in Italia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, l’organismo delle Nazioni Unite che stamattina invierà alcuni ispettori in via dei Villini. Pur non avendo ottenuto lo status di rifugiato politico, Mohamed Ali e gli altri possono rinnovare il visto ogni tre anni e soggiornare legalmente nel nostro paese, ma solo qui: «Secondo il regolamento Dublino II devono risiedere nella nazione in cui hanno richiesto l’asilo, vale a dire che seppur indigenti questi figli della guerra resteranno in Italia e perciò il governo farebbe bene a investire su di loro e renderli attivi in modo da disinnescare possibili tensioni sociali». Il veterano Ahmed, arrivato in Sicilia nel 2003, ha provato a bussare alla frontiera svizzera. L’economista Abdul a quella irlandese. Ali è volato fino in Svezia, dove la leggenda vuole che i profughi vengano accolti a braccia aperte. Ma le impronte digitali non lasciano margini alla pietà. Così, zaino in spalla, sono stati tutti rispediti a Roma a dormire nelle stanze senza luce tra le carcasse dei mobili laccati, nella soffitta con la cisterna d’amianto da cui esce l’unico filo d’acqua, nella vecchia Lancia Thema con la targa diplomatica arrugginita come il gazebo del giardino. Said ripiega il tappetino della preghiera acquistato nel bazar di famiglia, sorride e mostra i denti neri traballanti: «Sono nato nel 1986 e non ho mai conosciuto la pace, speravo di trovarla in Italia e poi poterla descrivere a mia moglie e al mio bambino, invece non li sento da tre anni». Alle coperte e alla zuppa cucinata sul tetto con un fornello a alcool provvede la Caritas, ma l’unico telefono immaginabile in questo non luogo a un paio d’isolati dal ministero del Lavoro è quello modello S.I.P. ammucchiato con la macchina da scrivere Olivetti e i taccuini dell’Ambasciata Repubblica Democratica Somala nello scaffale sventrato con il cartello «Dokument 1989-90». La fine del mondo. A chi compete il destino dei somali di via dei Villini? Se Mogadiscio è un ricordo diafano l’Italia sembra sempre più una chimera impalpabile. «Il Comune di Roma non può intervenire nel recupero dello stabile perché è demanio extraterritoriale, ma sta cercando di agire sulle posizioni individuali» spiega l’assessore alle politiche sociali Sveva Belviso. Secondo la legge i profughi accolti in Italia devono poi intercettare per conto proprio i servizi sociali disponibili. Ma come fanno se parlano solo l’arabo o, nel migliore dei casi, l’inglese? L’invisibilità, ammette la Belviso, è il paradosso di questo buco nero nel cuore della Capitale: «E’ probabile che alcuni di loro siano portatori di handicap e abbiano diritto a un sussidio o a cure mediche, ma non lo sanno. Le possibilità di aiuto si perdono così in un infinito circolo vizioso». «Com’era il mio paese quando piaceva tanto agli italiani?» domanda Mohamed Ali, insoddisfatto dal discorso senza figure di Siad Barre. Aveva dieci anni quando gli americani si ritirarono dalla missione Restore Hope e le immagini che conserva di Mogadiscio sono solo fuoco, sangue, macerie, palazzi sontuosi in rovina un po’ come la sua nuova casa romana.