Tonia Mastrobuoni, Il Riformista 28/12/2010, 28 dicembre 2010
ACCORNERO RACCONTA «ALMENO VALLETTA
DAVA LA BEFANA AGLI OPERAI FIAT» -
intervista. Non ci fu solo l’epurazione anticomunista: il Professore rafforzò la mutua o le colonie estive e diede premi a chi non scioperava. Furono anche le sue “carote” a sconfiggere la Fiom. Marchionne non offre nulla in cambio dei sacrifici: solo sgravi. Che paghiamo noi. E smantella la tradizione sindacale europea, non solo quella italiana.
C’era un abisso negli anni di Valletta, tra gli operai che avevano la Malf, la “Mutua aziendale lavoratori Fiat” e tutti gli altri, costretti ad andare negli scassati ambulatori pubblici». Aris Accornero ricorda bene quegli anni del cosiddetto “paternalismo autoritario”, quando in Fiat vigeva una ferrea disciplina e si cacciavano i comunisti. Ma quando era anche l’azienda di una fiera élite operaia. Il grande sociologo, licenziato allora perché comunista, invita a riflettere su aspetti poco noti di quell’epoca. Se Valletta dimezzò a metà degli anni Cinquanta il peso della Fiom «non fu solo con il bastone ma anche con la carota». La Fiat era allora «un’azienda molto munifica» che regolava la vita degli operai anche fuori dalla fabbrica con la mutua, lo sport, le colonie e «un rito indimenticato come la Befana». Oggi Marchionne, in cambio dei sacrifici,«non offre nulla». Ma anzi «stravolge la tradizione non solo italiana, ma europea, delle relazioni sindacali».
Accornero era stato reclutato nel 1946 nella prestigiosa Scuola allievi della Fiat, la più ampia iniziativa per la formazione della storia dell’industria italiana. Due anni dopo, a seguito degli scioperi a scacchiera della Fiom che avevano paralizzato l’azienda, Vittorio Valletta era già partito all’attacco delle tute blu “rosse” e dei militanti del Pci, al grido di «il socialismo ve lo faccio io!» pronunciato durante un celebre Consiglio di gestione.
Bastone anticomunista.. Anni dopo, nel 1957, Accornero fu una delle vittime di quell’offensiva, di quell’epurazione; un miscuglio di licenziamenti e trasferimenti nei cosiddetti “reparti-confino”. Tuttavia, non ha difficoltà a dire oggi che non rimpiange «assolutamente nulla» di quel passato ma che del Professore non bisogna ricordare solo l’aspetto autoritario, la gestione quasi militaresca dell’azienda. Altrimenti non si comprende la famosa disfatta della Fiom che nel 1955 crollò dal 64 al 37 per cento dei suffragi e due anni dopo addirittura al 21 per cento.
Carota paternalista.Tanto per cominciare, per convincere gli operai a desistere dalle mobilitazioni della Fiom «esisteva il premio di collaborazione, detto “di produttività”. Era un premio per chi non faceva sciopero, non dato quindi a chi faceva qualcosa ma a chi non faceva qualcosa». Secondo l’autore di Era il secolo del lavoro (Il Mulino), contrariamente alle ricostruzioni «un po’ unilaterali» di questi giorni, la cosa che più distingue quegli anni intensi del boom economico e dei modelli vincenti della Fiat come la 600 e la 500 dall’oggi «non è il volto cattivo di Valletta, bensì il contrario. Rispetto ad oggi Fiat era un’azienda molto munifica. La mutua Fiat è stata rimpianti per decenni, a Torino. Il Lingotto assicurava ai suoi lavoratori un sistema sanitario equivalente a quello pubblico: ci si andava a curare negli ambulatori Fiat». Poi c’erano le colonie per i figli degli operai - quelle ricordate spesso da Rita Pavone. Figlia di un operaio, da bambina ci finì per sei anni.
“Socialcapitalismi”. Il disegno di Valletta, definito da lui stesso di “socialcapitalismo”, era quello di allettare le mestranze e convincerle a deporre le armi anche attraverso logiche premiali. Istituì un “premio di fedeltà” per gli ultrasessantacinquenni con 35 anni di lavoro alle spalle, costruì case di riposo a Moncalieri, moltiplicò gli asili nido. «Insomma», sottolinea il sociologo, «le provvidenze erano parecchie, c’era anche il gruppo sportivo, addirittura la Befana dei dipendenti. Si trattava di una cerimonia solenne, ci andai anche io, che si svolgeva in un enorme salone del Lingotto alla presenza di Agnelli e Valletta. Tutti i dipendenti con figli sotto i sei anni, se non ricordo male, ricevevano giocattoli e dolci. Ma anche l’attività sportiva aveva il suo peso: un terzo dello sport torinese passava per la Fiat. E soprattutto gli sport popolari come il ciclismo o il canottaggio».
Fiat Pride. La Fiat di oggi, sospira Accornero, «non ha, aihmé, e non dà nulla di tutto ciò. Marchionne promette solo che, se i lavoratori saranno buoni, riceveranno aumenti in busta paga. Riconosciuti, oltretutto, attraverso sgravi fiscali sugli straordinari. Insomma, è la fiscalità generale che sta pagando i sacrifici chiesti dall’amministratore delegato». Certo, negli anni Quaranta e Cinquanta molte cose in Fiat erano l’eredità del fascismo, ma Valletta rafforzò l’aspetto “welfaristico” dell’impresa. Il risultato fu anche che «tante cose cementarono il senso dell’appartenenza all’azienda degli operai, ed erano anche una grande pubblicità per l’azienda»
2010: lacrime e sangue. L’aziendalismo di Marchionne «è solo quello di lacrime sangue, invece». Mezzo secolo fa «noi eravamo contro Valletta - ragiona - ma nessuno era così stupido da non vedere che le provvidenze influenzavano enormemente l’atteggiamento dei lavoratori. Nessuno si scandalizzava più di tanto del paternalismo. Che contribuì, assieme a un’altra invenzione di quegli anni, il Sida, il sindacato giallo, alla sconfitta della Fiom».
Fiat fa per sé. Due analogie interessanti che riportano a quegli anni «e che nessuno ha ancora fatto», osserva Accornero, «è che già allora nacque l’idea di un contratto ad hoc per il settore auto, che all’epoca comprendeva anche l’Alfa Romeo e la Innocenti». La seconda analogia di cui non parla nessuno è tra l’atteggiamento di Marchionne e quello di Valletta nei confronti di Confindustria. «Fiat guardava allora con sovrano disinteresse alla Confindustria, Valletta la trattava con alterigia. A Torino si preferiva fare tutto da soli». E viale dell’Astronomia si adeguava «non concedendo più di quanto concedesse la Fiat per i rinnovi - allora piuttosto magri, va ricordato».
L’Avvocato. Era un po’ «come l’Olivetti che era proprio fuori da Confindustria e si riteneva assolutamente autosufficiente e capace di autorappresentarsi. Faceva volentieri a meno della mediazione dell’associazione degli imprenditori. Questo, per Fiat durò parecchio. Fino a quando, in pratica, Gianni Agnelli decise addirittura di candidarsi alla presidenza dell’associazione degli imprenditori», a metà degli anni Settanta.
La minaccia americana.. Accornero ricorda che se Marchionne minaccia oggi di portare la produzione fuori dall’Italia nel caso non riesca a garantire l’esigibilità degli accordi negli stabilimenti, Valletta giustificò negli anni Cinquanta la sua severità nei confronti dei comunisti con le pressioni americane. «Anche il Professore ripeteva ad ogni piè sospinto, “cosa posso fare, me lo chiedono gli americani!”» sottolinea. Famoso il veto dell’ambasciatrice americana a Roma, Clare Boothe Luce, moglie del potente editore di Time, che minacciò nel 1953 di annullare qualsiasi commessa del Pentagono se la Fiom avesse mantenuto la maggioranza nelle commissioni interne.
Un sindacato per azienda. In ogni caso, entrando nel dettaglio dell’intesa firmata la scorsa settimana a Mirafiori, per il sociologo le novità sulla rappresentanza «sono l’aspetto peggiore, sono soluzioni formalmente, dichiaratamente esclusive. Finiremo come negli Stati Uniti dove c’è un solo sindacato per ogni azienda, quello più votato dai lavoratori? È questo l’interrogativo che ci dobbiamo porre oggi. Questa esclusività è di matrice americana, è senza precedenti non solo in Italia: lo è in Europa».
Silenzio al dissenso. Negli Stati Uniti, cioè, «si entra in fabbrica se metà più uno ha detto di sì; da noi è sufficiente una rappresentanza generale. In Europa il tema della solidarietà è insito nella tradizione mentre quello dell’esclusione è tipicamente americano. Questo vuol dire che negli Usa si sta molto, ma molto meglio nelle fabbriche in cui c’è il sindacato rispetto a dove non c’è. E vuol dire anche che le singole aziende cercano dunque di resistere all’ingresso del sindacato in azienda. Quella di Marchionne è la peggiore delle rotture rispetto alla nostra tradizione e a quella europea. Si mette il silenziatore al dissenso. Difficile immaginare una soluzione più drastica di questa».