IL Messaggero 28/12/2010, 28 dicembre 2010
RECUPERARE LO SPIRITO CHE FECE LA PATRIA
IL 7 GENNAIO a Reggio Emilia, la città in cui sventolò per la prima volta il tricolore, avranno avvio, alla presenza del Presidente della Repubblica, le celebrazioni per il centocinquantenario dell’Unità di Italia.
Nel 1961 i festeggiamenti per il centenario si svolsero in un clima segnato dalla volontà di dimenticare gli anni del dopoguerra, di riallacciare il filo della storia nazionale alla grande tradizione del pensiero risorgimentale e di aprire la via non solo alla completa attuazione della Costituzione, ma anche al grande sforzo collettivo che avrebbe portato l’Italia nel club dei Paesi più ricchi del mondo.
Ancora oggi gli edifici costruiti a Torino per “Italia 61”, testimoniano di un Paese che credeva in sé stesso, tutto proteso verso il futuro.
In quell’occasione emerse una visione in positivo, orientata ad esaltare il processo di unificazione nazionale e i diversi filoni ideologici che lo animarono, in un quadro che volutamente vedeva nella nuova Costituzione italiana la continuazione, dopo il ventennio fascista, di quel grande sforzo collettivo. Il pensiero storico e costituzionale più avanzato parlò anche di un nuovo Risorgimento, aperto dalla lotta per la liberazione e approdato, con il varo della Costituzione, a una nuova unità del Paese, in un più forte quadro di democrazia e di libertà, frutto anche del coinvolgimento di tradizioni e forze, come il mondo cattolico e le masse popolari, che nel primo Risorgimento erano rimaste ai margini, se non dichiaratamente ostili.
Il clima in cui si apre l’anno del centocinquantenario è diverso. Il Paese sta attraversando una crisi economica e sociale di portata mondiale, che lo costringe ad affrontare problemi nuovi e difficili.
All’ottimismo e all’entusiasmo che animava la generazione uscita dalla seconda guerra mondiale, e che la vedeva impegnata a costruire un futuro immaginato comunque più bello e più ricco del passato, si è sostituito oggi un clima di preoccupazione e di affanno. Tutti i Paesi occidentali sono alle prese con un presente incerto, e le nuove generazioni hanno la consapevolezza di dover pagare i conti di quelle che le hanno precedute. È proprio questo il malessere profondo che caratterizza le manifestazioni giovanili divampate in molti Paesi europei. Un malessere che può minare le nostre democrazie.
Il centocinquantenario non può dunque essere affrontato con lo stesso tono, un poco retorico e profondamente ottimista, che segnò il centenario.
Ma vi è di più. Il Paese arriva a questo appuntamento attraversato da conflitti e tensioni che nel tempo hanno dato alle differenze territoriali una rilevanza crescente, originando nuovi movimenti e soggetti politici radicati anche in una lettura diversa, e per certi aspetti opposta, sia della storia italiana sia della realtà del Paese.
Basta vedere la impressionante produzione di libri e studi sul periodo risorgimentale uscita in questi mesi. Riflessioni e commenti che danno voce anche ai perdenti, ridimensionano figure spesso ingigantite dalla retorica nazionale, pongono in luce le diverse letture che fin dal periodo dell’Unificazione sono state date in Italia di quel processo. Una storiografia che cerca di ritrovare le tracce della storia che avrebbe potuto essere e che non fu, scavando dentro un Risorgimento che ebbe tante facce e percorse tanti itinerari.
Da questa letteratura emergono con maggiore chiarezza le fratture che quel processo storico determinò, aggravando le differenze materiali e le diversità di percezione e di autorappresentazione delle varie parti di Italia.
Fra gli aspetti di maggiore interesse che questa letteratura coglie vi è la tensione che a lungo segnò il Risorgimento tra unionisti e federalisti.
Una tensione che mutò carattere nel corso di quel medesimo processo.
Fino alla conquista del Regno delle Due Sicilie, la contrapposizione tra unionisti e federalisti divise i sostenitori di un processo di unificazione che doveva approdare alla costruzione di uno Stato nazionale unitario, dai sostenitori di un processo che, sul modello tedesco, lasciasse spazio a diversi Stati, tra loro legati da accordi e forse anche da Istituzioni comuni.
Dopo la conquista del Regno delle Due Sicilie, invece, il dibattito si concentrò su come dovesse essere organizzato lo Stato unitario. I modelli erano sostanzialmente due. Il primo puntava a rispettare le identità regionali e territoriali, irrobustendo le autonomie locali e creando anche nuove grandi Province (più grandi delle attuali Regioni), dotate di poteri legislativi nei settori dell’agricoltura, dei lavori pubblici, dell’istruzione e dei servizi ai cittadini. Allo Stato centrale restava un ruolo di coordinamento, e competenze esclusive in materia di giustizia, difesa, relazioni internazionali e grandi servizi di utilità nazionale. Il secondo puntava invece su un modello accentrato di Stato, fondato sostanzialmente sull’estensione delle leggi dello Stato piemontese, sia pure già in gran parte ammodernate dopo la prima e la seconda guerra di indipendenza.
Malgrado che Minghetti e Farini portassero in Parlamento un progetto di legge a forte impronta federalista, prevalse il modello dell’accentramento. Fu decisivo il clima di scontro e di tensione che segnò gli anni successivi all’impresa garibaldina e che diede vita a quel decennio sanguinosissimo, ingenerosamente definito come guerra al brigantaggio meridionale, che vide tutto il Sud, tranne Napoli, Reggio, Teramo e la Sicilia, sottoposto allo stato di assedio per ben tre anni.
Il modello federalista restò in ombra, accantonato ma non sconfitto; il progetto di legge Minghetti-Farini, pur preso in esame, non fu mai votato dal Parlamento di Torino. Il modello accentrato, dal canto suo, tardò a trovare una adeguata cornice legislativa, fino a quando il Parlamento di Firenze non varò le leggi di unificazione.
Il disegno autonomista e regionalista continuò a scorrere nelle vene profonde di alcune classi dirigenti, e costituì un aspetto importante di grandi tradizioni politiche, a cominciare da quella di ispirazione cattolica.
Troppo spesso si dimentica che proprio al cattolico e siciliano don Sturzo si deve la ripresa forte del pensiero regionalista, visto come la soluzione istituzionale per il Paese. Così come si dimentica che nell’Appello ai Liberi e Forti, carta fondativa del partito popolare, il regionalismo e la valorizzazione delle autonomie locali costituivano l’architrave del disegno costituzionale.
Né mancarono valorizzazioni delle autonomie locali anche nel pensiero dei liberali più pragmatici, che ebbero in Giolitti e nel rafforzamento dei Comuni da lui promosso, un punto forte di approdo.
Lo stesso pensiero socialista, a cavallo tra Ottocento e Novecento, vide nell’espansione delle autonomie locali una risposta duttile e concreta a bisogni delle masse proletarie, che lo Stato centrale tendeva a considerare solo in termini di ordine pubblico.
La Costituzione repubblicana, infine, ha nel Dna la visione autonomista e regionalista, riprendendo in questo modo un filone smarrito della storia ottocentesca.
Purtroppo una attuazione spesso incerta e contraddittoria della stessa Carta costituzionale ha fatto accumulare ulteriori ritardi anche rispetto al modello di Stato che essa stessa delinea.
Vi sono dunque fortissimi motivi per auspicare che questo anno di celebrazioni ci aiuti a comprendere meglio la comune storia nazionale, a riannodare i fili del nostro passato, ad avere una consapevolezza più lucida di cosa la nostra Costituzione aveva progettato e a condividere gli aggiornamenti costituzionali, anche in senso federale, che il tempo attuale richiede. Allora forse usciremo da questo anno più uniti e meno lontani.