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 2010  dicembre 28 Martedì calendario

IL PICCOLO MIRACOLO DEI MORMONI

Max Weber a Salt Lake City. Chissà cosa avrebbe detto, incontrando gli imprenditori mormoni, l’autore dell’"Etica protestante e lo spirito del capitalismo".

Sì, perché Obama avrà pure tanti nemici. Nella politica interna, con le elezioni di mid-term segnate dalla prevalenza mediatico culturale dei Tea Party e finite con la House of Rapresentatives in mano ai repubblicani. E sui mercati esteri, con le guerre monetarie che influenzano il commercio internazionale sancendo la fine dell’egemonia del dollaro. Ma una squadra d’attacco, compatta e unita, il presidente americano ce l’ha.

Nella sua complessa partita finalizzata a raddoppiare l’export entro il 2015, o almeno ad irrobustire i flussi di beni in uscita da una America a sempre minore carica manifatturiera, possono fare non poco gli imprenditori dello Utah. Che, proprio in virtù di una religione che li porta per due anni in missione all’estero dopo l’high school e prima dell’università, imparano lingue straniere e hanno una particolare abilità a muoversi in paesi stranieri.

«Tutto questo è vero - conferma Phil Barlow, docente di studi religiosi alla Utah State University - e non c’è solo un link contemporaneo fra lo spirito religioso mormone e la spinta ad andare in giro per il mondo a fare business. Esiste anche una ragione di lungo periodo, che va all’origine della nostra comunità: nel 1800 un gruppo di mormoni guidati da Brigham Young colonizzò questa parte delle Montagne rocciose. Per sfuggire alle persecuzioni vennero qui, in un territorio davvero ostile, dove nessuno voleva abitare. Avevano bisogno di tutto: acqua, sale, legname. Dovettero essere molto ben organizzati, uniti e votati a un progetto comune». Una organizzazione insieme mutualistica e imprenditoriale di cui ancora oggi puoi intuire l’essenzialità e il pionierismo osservando il deserto di sale, polvere e pietre grigie che continua a circondare, quasi duecento anni dopo, la capitale di questo stato. Stato che sta appunto contribuendo in misura significativa alla partita di Obama sui mercati internazionali.

«Il progetto lanciato dal presidente a marzo - ricorda nel suo ufficio governativo Franz Kolb, mormone di origine austriaca che oggi dirige l’ufficio per lo sviluppo economico dello Utah - prevede che l’export americano, beni materiali e servizi inclusi, salga dai 1.570 miliardi di dollari del 2009 ai 3.140 miliardi di dollari nel 2015». In un progetto tanto ambizioso lo Utah, per quanto abbia una quota di pochi punti sulla bilancia commerciale americana, porta un dinamismo rilevante, che nessun altro stato americano conosce. Basta osservare i dati sul commercio internazionale del primo semestre dell’anno, elaborati dall’International Trade Administration. Limitandosi ai soli beni materiali, l’export è rimbalzato del 22% rispetto allo stesso periodo del 2009, quando a causa del contagio della recessione dalla finanza all’economia reale aveva causato un tracollo del 24%, quello dello Utah è addirittura cresciuto del 44 per cento. Questa tendenza è ancora più evidente se si analizza quanto è successo negli anni scorsi. Le esportazioni americane hanno avuto una crescita cumulata, dal 2006 al 2009, del 3 per cento. Quelle dello Utah invece sono salite del 52 per cento. Il ritmo di crescita è di diciassette volte superiore. Al di là della fattibilità del progetto di Obama, resta la specificità dello Utah. Un buon 40% di questo export è indirizzato in Gran Bretagna. Fra gli altri mercati di sbocco ci sono il Canada con il 10% e, soprattutto, l’India (la quota è del 7%, i valori sono cresciuti di quattordici volte in quattro anni), Taiwan (6% la quota, tasso di crescita composto dal 2006 pari al 1.200%). Interessante il tipo di beni esportati, che tratteggiano il profilo di un export di qualità superiore rispetto alla media americana: il 15% dell’export sono prodotti high-tech collegati all’Ict (contro il 5% dell’export complessivo statunitense), il 5% appartiene all’automotive (in linea con la tendenza generale americana) e il 4,5% si riferisce alla chimica e il biotech (mentre per tutta l’America queste ultime attività valgono il 2%).

«Una propensione all’export così forte e evoluta - dice David Clark, dal 2008 è direttore del programma di sviluppo imprenditoriale del dipartimento di management di Utah State University - si spiega prima di tutto attraverso le storie personali della comunità mormone, ma conta anche il problema dell’educazione». Una questione che qui a Salt Lake City ha un peso enorme: il Perpetual Education Fund, che dà prestiti ai giovani meritevoli alla comunità, rappresenta la formalizzazione finanziaria di una precisa tendenza storica.

Clark nella sua carriera è stato presidente e amministratore delegato della Prolexys Pharmaceuticals e in un fondo di investimento. Dunque, fa parte del delicato meccanismo di integrazione fra imprese e università che ha fatto di Utah State University l’ateneo più vicino al Mit di Boston per numero di start up (secondo l’Association of University Technology Managers, dal 2000, in media una ventina all’anno). Clark, sei figli con la moglie Christine, è anche mormone: «Sono stato in missione in Germania dal 1972 al 1974. E, grazie alla lingua e a quel mercato, mi è capitato negli anni successivi di farci buoni affari».

In particolare l’elemento strategico è la lingua straniera, come spiega il finanziere Mark Thomas, in missione per due anni in Brasile e poi impegnato in banche d’affari, fino a diventare uno specialista di bond municipali: «Il nostro credo non ha una naturale propensione al dialogo religioso. Abbiamo invece tre punti di forza, essenziali per il business. L’ottimismo che abbiamo ereditato dai nostri avi, che con la loro fede sono sfuggiti alle persecuzioni. Lo spirito imprenditoriale che ci permette di condurre al successo piccole e medie società manifatturiere e non. La conoscenza delle lingue straniere, un vantaggio naturale anche per chi di noi finisce a New York o a Washington, in banche d’affari o in istituzioni finanziarie dove il multilinguismo è apprezzato»

Lo spirito ultraconservatore di questo stato si è da poco manifestato alle ultime elezioni, con l’ascesa al Senato di un uomo dei Tea Party come Mike Lee, il cui padre Rex era stato solicitor general dell’amministrazione Reagan, il rappresentante dell’esecutivo di fronte alla Corte Suprema. Nella quotidianità dei mercati, però, grazie a questo strano mix di cultura, religione e business, lo Utah esprime un particolare tipo di neocapitalismo protestante, poliglotta, aggressivo e high tech, che offre una stampella al claudicante e democratico Obama, rinnovando sui mercati aperti di una globalizzazione che per la prima volta sfugge di mano all’America la strana leggenda di una comunità che al suo paese non offre soltanto agenti della Cia, che li cercherebbe perché astemi e morigerati, ma anche buoni mercanti.