Giorgio Dell’Arti, La Stampa 28/12/2010, PAGINA 86, 28 dicembre 2010
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 53 - L’ITALIA FARÀ DA SÉ
Due domande. La prima: Valerio e Sineo non erano democratici? Come mai tutto questo affannarsi in favore di Carlo Alberto? Che cosa viene prima: le istituzioni libere e democratiche o la guerra all’Austria? Seconda domanda? Come reagirono in Piemonte all’elezione di Pio IX e vicende successive? Voglio dire: a Roma la gente scendeva in piazza e il papa concedeva libertà di stampa, consulte varie eccetera. E a Torino? Prima domanda. Intanto Torino non era nelle condizioni di Roma. Salito al trono, Carlo Alberto non aveva avuto bisogno di Memorandum e aveva provveduto da sé a qualche ammodernamento. Vittorio Emanuele I e Carlo Felice erano stati dei grandi dissipatori, le finanze dello Stato - nel ‘31 - erano disastrate, ma il nuovo re aveva provveduto a restaurarle tagliando parecchi sprechi e rianimando i traffici col metodo di pretender meno soldi dalle dogane. Il re era un gran lavoratore, in piedi all’alba, prima riunione da lui alle otto di mattina, eccetera. All’ inizio degli anni Quaranta risultava un avanzo di cassa di 70 milioni con cui volendo si sarebbe potuta finanziare senza far debiti la Torino-Genova. E il feudalismo in Sardegna, almeno formalmente, era stato dichiarato morto. Erano poi state varate tutta una serie di riforme amministrative, il consiglio di stato, i nuovi codici civili, penali e di procedura, un insieme di cose assai importanti, anche se decise dopo i soliti mille dubbi, ripensamenti e rinvii, tanto che il ministro Barbaroux, esasperato, un certo giorno s’era buttato dal balcone di palazzo Reale e l’aveva fatta finita. In questo contesto - meno chiuso di quello romano - Valerio aveva concepito un progetto non dissimile da quello di Mazzini a Roma, di fare cioè al re una corte strettissima, con lo scopo finale di circondare la monarchia di istituzioni repubblicane, e spingere magari Carlo Alberto a qualche gesto enorme, quasi contro la sua volontà. Un doppio gioco. Il re non era peraltro da meno, e aveva preso l’abitudine di considerare patrioti e movimento una forza a disposizione, da adulare col mito dell’ Italia e lasciare ignara delle sue mire segrete. Che erano quelle di prendere la Lombardia, mantenendo però l’ assolutismo e la vecchia struttura dello stato settecentesco. Cavour commentava il gioco, piuttosto evidente, dicendo che bisognava vedere chi sarebbe cascato per primo nella trappola dell’ altro. Intanto però questo falso amoreggiare aveva prodotto belle soddisfazioni per Valerio: dopo aver annullato le elezioni all’ Agraria, il re aveva nominato presidente il conte Filippo Avogadro di Collobiano. Cesare Alfieri era poi intervenuto sul sovrano perché non cancellasse l’ Associazione. Alfieri e Collobiano, moderati, proteggevano l’ esagerato Valerio anche per la sua forte attività di benefattore. Seconda domanda, relativa alle concessioni di Pio IX. Torino restò piuttosto fredda.
Come mai? Restò freddo soprattutto il re. Aveva visto una gran folla che lo aspettava sotto il palazzo e per timore che si sentisse qualche grido di «Viva l’ Italia» rinunciò a uscire. La piazza lo terrorizzava. E il papa lo stava scavalcando a sinistra… Bersezio lo descrive in quell’ estate «sempre più pallido, l’ occhio semispento, un freddo sorriso alle labbra […]passava riviste taciturne ai soldati taciturni, e pregava» .
Il ritratto di un perdente. Proprio così. Al tavolo da gioco ti entrano carte buone e ti prende il panico: sarai capace, ora che hai il punto, di vincere? A proposito dei primi passi di Pio IX, scrisse a Villamarina «…che sia benedetto! È una campagna ch’ egli fa contro l’ Austria! Evviva!... una guerra d’ indipendenza nazionale, che si unisce alla difesa del Papa, sarebbe per me la più grande fortuna». Fuori non faceva capir niente, ma nelle riunioni del mattino si intuiva che smaniava di far qualcosa - qualcosa che però non eccitasse troppo la piazza - e allora il De la Tour, governatore di Torino e reazionario, tentò di scoraggiarlo chiedendogli: «Che farà il Piemonte, se l’ Austria, anzi che essere, come fu sempre, con noi, sarà contro di noi?». Al che Carlo Alberto avrebbe dato la famosa risposta: «Se il Piemonte perde l’ Austria, acquisterà l’ Italia, e allora l’ Italia potrà fare da sé».
Un’ esagerazione. Chi non è sicuro del proprio gioco esagera spesso, in un senso o nell’ altro. In ogni caso il Villamarina - che era il suo ministro della Guerra, in fama immeritata di liberale - parlò in giro della lettera e del «far da sé», questo dovette smuovere qualcosa, perché al congresso dell’ Agraria di Mortara, in agosto, Valerio se ne uscì con un saluto a Carlo Alberto «quel principe, il quale, arridendogli i fati, avrebbe scacciato lo straniero dall’ Italia» . E non venne arrestato. Vi fu poi, ai primi di settembre, il Congresso degli scienziati a Genova. Vennero, per la prima volta, anche studiosi dello Stato pontificio, non di nascosto, ma autorizzati, e gli si fecero un mucchio di feste. La sera andavano al teatro Sant’ Agostino a sentire Gustavo Modena che recitava le tragedie di Vittorio Alfieri, tutto un sentire pieno di ardimenti… Lei mi capisce.