Pierluigi Panza, Corriere della Sera 27/12/2010, 27 dicembre 2010
SAN PIETRO —
La mattina del 22 gennaio 1743 le carrozze che entrarono nel cortile del Quirinale non trasportavano prelati o ambasciatori in udienza da papa Benedetto XIV, ma alcuni tra i più grandi matematici dell’epoca.
Da tre mesi, ma si potrebbe dire da almeno dieci anni e forse più— almeno da quando l’architetto Fontana aveva stuccato alcune fessurazioni— si temeva infatti che la cupola di Michelangelo crollasse.
Roma, allora, era una città abitata da pellegrini e briganti forestieri, con le vacche che pascolavano tra gli avanzi dei fori e i flagellanti guidati da Leonardo da Porto Maurizio che sfilavano lungo via Lata supplicando Dio di non far cedere «la gran volta» . Se quella cupola immensa fosse crollata, infatti, avrebbe sepolto sotto le sue rovine le più venerate reliquie di Gerusalemme. Perché lì, alla base di quegli enormi pilastri fessurati che reggevano la cupola, erano custodite la lancia insanguinata del centurione Longino che trafisse il costato di Cristo; il velo con il quale la Veronica ne aveva asciugato il volto, trasmettendoci la vera icona del Salvatore e un frammento della croce del Golgota che era stato conservato da Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino. Ma, soprattutto, lì c’era la tomba di Pietro, i cui resti giacevano sotto il baldacchino costruito dal cavalier Bernini sul modello del tempio di Salomone, ma usando il bronzo delle colonne pagane del Pantheon di Agrippa. Gran parte della cristianità e di ciò che restava del Testamento Antico, il ricordo degli dei pagani ma anche dell’antica necropoli cristiana erano dunque racchiusi in quel pezzo di terra protetto dalla cupola. Una terra che era stata giardino di Nerone, dove il crudele imperatore aveva costruito un circo per divertire il popolo, poi catacomba e, dal IV secolo, pavimento della basilica cristiana edificata dall’imperatore convertito, Costantino.
I quattro enormi pilastri, opera del Bramante, dei fabbricieri, del Bernini e dei molti che avevano messo mano alla costruzione della basilica nuova da dedicare a San Pietro, iniziata da Giulio II nel 1506, erano grandi quanto una piccola chiesa, quanto la chiesa di San Carlino alle quattro fontane costruito dal povero Borromini, che per invidia si era ucciso da sé... Ciononostante, quelle quattro moli parevano non bastare per reggere il peso della volta.
A dire il vero, quando Michelangelo era morto, la costruzione della cupola era ancora ferma al tamburo. Fu il suo erede, Giacomo della Porta a chiudere la calotta, innalzandola di una trentina di piedi oltre al progetto del fiorentino. Poi il sommo cavalier d’Arpino vi aveva dipinto ben 96 figure tra cherubini, serafini, angeli, apostoli, patriarchi, vescovi e, alla sommità, aveva posto l’iscrizione a San Pietro e a Sisto V, che aveva voluto quella volta alta da terra più di 400 piedi (146 metri). Ma allora cupola e pilastri erano fessurati. Per molti mesi erano state martellati all’interno delle fessure dei cunei a coda di rondine per studiare le dilatazioni; e quasi tutti i cunei, in pochi mesi, erano precipitati a terra. Segno che le fessure si dilatavano. Se quella cupola fosse crollata, dicevano i savi e gli indovini, sarebbe crollata ogni di religione e, qualcuno diceva, crollata Roma. Per questo si pregava in ogni chiesa e in piazza San Pietro all’ombra dell’unico simbolo che sarebbe rimasto in piedi dopo il crollo: l’obelisco di Heliopolis dedicato al dio Sole e fatto erigere in mezzo alla piazza un secolo e mezzo prima dall’architetto Domenico Fontana. Quello solo, con il colonnato del Bernini, sarebbero rimasti!
Al Quirinale, quel giorno, il prefetto della biblioteca Vaticana, monsignor Gian Gaetano Bottari, e l’architetto capo della fabbrica di San Pietro, il Bariglioni, avevano convocato i matematici del tempo e gli architetti Ferdinando Fuga e Luigi Vanvitelli. Bisognava decidere che fare per salvare la cupola. Anche a costo di tassare il pane o di attingere la tesoro di Sisto V, il forziere che non si era mai violato.
Due padri minori, chiamati Leseur e Jacquier, e il gesuita Ruggero Boscovich, che insieme avevano «osservato la cupola con il cannocchiale e gli strumenti» , esposero le loro considerazioni basate sul calcolo dei pesi della lanterna, dei costoloni e della cupola e la resistenza opposta ad essi dai contrafforti della cupola. Al termine della loro analisi ritennero che la cupola avesse «uno sbilanciamento di tre milioni di libbre» e che si dovesse intervenire, altrimenti si sarebbe divaricata, aperta. Il matematico e patrizio senese Lelio Cosatti diede la colpa delle fessurazioni ai fulmini e ai terremoti, che invano si cercavano di prevedere. Il matematico Santini, invece, ai materiali: malta e mattoni non potevano «reggere un catino di 160 milioni di libbre» , disse; il caldo e il freddo, il secco e l’umido attaccano ogni materiale facendolo ritornare polvere originaria. Secondo l’abate e matematico Diego Revillas, invece, i dissesti presenti nella volta della navata della crociera e negli arconi erano da attribuire alla traslazione verticale del tamburo della cupola, movimento indotto dai terremoti e dal cedimento delle fondazioni.
Per tutto quel gennaio e febbraio le veglie si alternarono agli studi matematici, le preghiere ai documentati firmati e anonimi che giungevano a monsignor Bottari. Il quale decise di affidarne l’analisi, per un definitivo parere, al più dotto matematico dell’epoca: il fiorentino Giovanni Poleni.
Il 20 febbraio Poleni era a Roma e convocò una riunione al termine della quale fece votare i presenti sulla soluzione da adottare per evitare il crollo. Valutati i voti, si ritirò per giorni a effettuare delle prove empiriche, usando calotte in terra cotta e rame al posto della cupola e osservandone le deformazioni e i punti di rottura sotto pressione. Quindi stese delle memorie che il 13 aprile vennero presentate alla corte pontificia. La soluzione proposta da Poleni seguiva soprattutto quella dei due abati minori e del gesuita Boscovich: bisognava sia sigillare le fessurazioni che cerchiare la cupola con dei ferri per evitare che si aprisse e crollasse al suolo.
La notizia fece scalpore, e molti studiosi si opposero. Il matematico bolognese Gabriello Manfredi, e i napoletani Intieri, Orlando e Di Martino, inviarono delle memorie scongiurarono il Papa di non intervenire con dei cerchi di ferro sulla cupola. Il Revillas, invece, rilanciò l’idea di colare del piombo fuso dentro le fessurazioni degli arconi.
Giovanni Poleni, un illuminista che veniva dall’Istituto di Fisica di Firenze, non tornò sulle proprie posizioni e, nel luglio di quell’anno l’architetto della Basilica Luigi Vanvitelli incominciò l’intervento sulla cupola. Il 3 agosto Vanvitelli scrisse una lettera al Poleni rassicurandolo che aveva già fatto giungere «dalle ferriere di conca 35 pezzi di cerchioni, il tutto ben condizionato nella qualità del ferro, e di buona fattura degli occhi» . Il 31 agosto il primo anello di ferro era già stato posizionato intorno alla cupola e le catene strette grazie a una macchina realizzata dall’architetto. Di certo si brindò con del buon vino di Genzano, di cui si serviva anche la corte pontificia.
Ma poi avvenne un imprevisto. Il fulmine che colpì la lanterna della cupola il 7 settembre fece interrompere i lavori per qualche giorno. Vanvitelli ritenne opportuno collocare allora anche un quinto cerchio di ferro, oltre ai quattro già previsti, per rendere più sicura la cupola anche per fulmini e terremoti. Nell’aprile dell’anno successivo, durante la nuova Quaresima e la nuova Pasqua, Vanvitelli stava già inzeppando di nuova malta gli arconi di San Simone e Giuda e quello della Cattedra, dove erano state «conficcate a forza di mazza 46 zappe di ferro» negli anni precedenti. Era segno che i lavori erano in stato avanzato.
Ad opera conclusa il Papa benedì la cupola anche se, quattro anni dopo, trovando uno dei due preesistenti cerchioni in ferro danneggiati, Vanvitelli volle collocare un sesto cerchio, rinunciando del tutto alla sua idea iniziale di costruite dei giganteschi contrafforti intorno alla cupola che, come braccia tese dall’esterno, avrebbero impedito alla stessa di aprirsi. L’anno dopo, grazie alla fama conquistata, Vanvitelli lasciò Roma e si diresse a Napoli, dove i Borbone volevano costruire a Caserta una reggia sul modello di Versailles. Da allora, nonostante i guai, nessun pellegrino ha più temuto che il grande catino di Michelangelo precipitasse a terra coprendo per sempre le ossa di Pietro.
Pierluigi Panza