Ferruccio Sansa, Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano 24/12/2010, 24 dicembre 2010
TORINO-REGGIO, SOLO ANDATA
Guardi il marciapiedi di Porta Nuova e ti sembra di vederci impronte. Milioni di impronte. Non è solo la neve che conserva le orme, la tua insieme con quelle degli altri viaggiatori. No, è che accanto a te senti i viaggiatori che per decenni sono arrivati qui per prendere questo stesso treno: “Intercity Torino-Reggio Calabria delle 21,05 in partenza”, annuncia l’altoparlante. E tu immagini uomini, donne, bambini che arrivavano proprio dove sei tu, con la valigia tenuta insieme dallo spago per farci stare vestiti, regali e pensieri. Quando gli immigrati eravamo noi, questo treno è stato il filo che attraversava l’Italia, che in qualche modo la teneva insieme.
Il viaggio di per sé è un simbolo. Ma qui c’è questo treno che sembra lo stesso di cinquant’anni fa. Ti viene quasi da ringraziare le Ferrovie per la loro decrepitezza, per le stazioni e i convogli che paiono pezzi da museo e aiutano memoria e immaginazione: è cambiata la voce degli altoparlanti (oggi c’è quella del sintetizzatore che sembra un cinese con le adenoidi) e ci sono i tabelloni elettronici. Ma il resto è lo stesso: la campanella che annuncia arrivi e partenze, i respingenti consumati, le motrici con milioni di chilometri. E i vagoni con la vernice che si stacca e rivela decenni di servizio. Tocchi la maniglia della porta e immagini quante mani l’hanno afferrata prima di te. Ancora un attimo prima di salire. Osservi Torino con le luci scheggiate dalla neve che cade e ti senti come il viaggiatore di Gogol: guardi le valigie e capisci che non appartieni più al luogo dove ti trovi, ma non sei ancora partito e la meta è lontana. Sei sospeso a mezz’aria. Natale, gli aerei ci portano alle Maldive. Ed è giusto, democratico, che per tutti (o quasi) il mondo sia a portata di mano. Ma ti chiedi: conosciamo ancora l’Italia? Che cosa è diventato il nostro Paese? Guardi i dieci vagoni in fila e pensi che sarebbe utile a tanti prendere questo treno. Eccoci allora sul Torino-Reggio Calabria. Intercity Notte 791. Forse il treno con la percorrenza più lunga: oltre 1.600 chilometri. A sentire l’altoparlante che snocciola le fermate come un rosario ti prende lo smarrimento: Torino, Asti, Alessandria, Tortona, Voghera, Stradella, Piacenza, Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Rimini, Ancona, Pescara, Termoli, San Severo, Foggia, Barletta, Bari, Gioia del Colle, Taranto, Metaponto, Policoro, Trebisacce, Sibari, Corigliano Calabro Rossano, Caria-ti, Cirò, Crotone, Cutro, Botricello, Cropani, Catanzaro, Soverato, Monasterace, Roccella Jonica, Gioiosa Jonica, Siderno, Locri, Bovalino, Brancaleone, Melito e infine Reggio Calabria. Sono 44 fermate, 9 regioni.
Gli operai della Fiat
ora sono pensionati
GUARDI le rotaie che si perdononelvaporedellaseradidicembre, davvero ti sembrano un filo che attraversa tutta l’Italia e in fondo quasi vedi lo Stretto. Ma le ruote cominciano a cigolare, le porte si chiudono e i mondi si separano. Fuori i volti pronunciano parole incomprensibili, le mani si agitano, si protendono. Proprio come nel capolavoro di Umberto Boccioni: “Gli addii”, con le diverse sorti di quelli che partono, ormai avvolti nel vortice del movimento, e quelli che restano, piegati nei loro pensieri versol’uscitadellastazione.Allora per la prima volta guardi i tuoi compagni di viaggio. No, non ci sono più, come negli anni Cinquanta, gli operai della Fiat che tornanoalSud.Omeglio:cisono ancheloro,maoggisonopensionati. Li riconosci dalle valigie, dalle mani consumate. Ma adesso accanto a loro, che appena saliti riprendono il dialetto, ritrovi studenti e nuovi immigrati: africani, slavi, arabi. E poi qualche prostituta che si sposta dove la polizia fa meno questioni. La nuovaItalia,quellafuoridagliEurostar. È un attimo. Poi ti prende una preoccupazione pratica, quasi una questione di sopravvivenza. Del resto il bigliettaio l’aveva detto: “Cuccette occupate, posti a sedere non garantiti”. In fondoilpattoeraquesto:viaggiare davvero con la gente del Torino-Reggio Calabria. Condividere tutto. Anche se è un’esperienza no limits. I più previdenti trascinano le enormi valigie attraverso il dedalo dei corridoi, fino alla sospirata cuccetta. Gli altri provanoaprocurarsiuncubicolodove rintanarsi. I posti a sedere? Sono prenotati, pare, anche se non è scritto da nessuna parte. Vince chi adocchia un posto ancora libero, dura quel che dura, magari unamanciatadiminuti.Loscompartimento pare disegnato da un sociologo. Sei compagni di viaggio, sei storie diverse: accanto ti ritrovi Rosario Uliano, camionista di Napoli, poi ecco Marco Isabelli, studente di Cosenza. Davide Bizzarri, di Reggio Emilia, di lavoro fa l’ingegnere alla Ferrari. Accanto a loro due donne marocchine: una silenziosa, con il velo che lascia vedere i denti bianchissimi. La sua amica è vestita come tante ragazze italiane, la gonna corta, i fuseaux attillati. È bella, davvero, con il naso all’insù e gli occhiali eleganti che incorniciano occhi color nocciola. Gente diversa che fuori di qui non scambierebbe una parola. Ma è il momento dell’euforia, ti senti ancora addosso lo slancio del treno che lascia la stazione e snocciola i vagoni per la pianura buia. Sei persone, sei accenti diversi. Di nuovo pensi: ecco l’Italia di oggi. Sono tutti viaggiatori abituali sul 791. Ognuno con le sue storie da reduce. Rosario è un fiume in piena: “Una volta ho beccato due… appiccicati… facevano dei versi… stavano proprio... Ma quando sei a caccia di un posto sopporti tutto. Basta dormire”. Anche se spesso è dura: “Una volta c’era la neve dentro il treno, i ghiaccioli”, giura Rosario. Marco di “Torino-Reggio” ne ha fatte tante, potrebbe mettersi le tacche sulla valigia. Ormai ci scherza su: vagoni roventi d’estate e gelidi d’inverno, ritardichesimisuranoineregeologiche, viaggiatori che dormono nei pensili per le valigie.
Il treno corre attraverso la pianura bianca di neve. Appena il tempo di immaginare la vita dietro le finestre illuminate: ecco un’ombra oltre i vetri di una cucina, un salotto con la luce viola della televisione, vetrine con abiti da sposa. Passi accanto a milioni di persone. Sfiori amici che non ricordavi più di avere. Mandi sms come messaggi in una bottiglia. Ecco il controllore, baffoni e modispicci.Guardarapidoilbiglietto di Davide, l’ingegnere, e Marco, lo studente. Poi punta sulle due marocchine e passa dal “lei” al “tu”: “Non avete pagato il supplemento intercity”. Le donne spiegano: “In stazione ci hanno datoilbigliettoperunespresso”. Il capotreno è secco: “Era un espressofinoadomenicascorsa, adesso è un rapido”, sentenzia. “Va bene, paghiamo la differenza”, si offrono le due ragazze. Da Torino a Piacenza, fanno 5 euro. Ma il capotreno non si accontenta: “Dovete pagare la multa”. Duecento euro di sanzione, per cento chilometri su un treno scalcinato. Il tutto condito da battutesprezzanti:“Machecredi chevendocipolle?”.Staccailverbaleeseneva.Certo,nondev’essere una gioia passare le notti cercando di governare un treno dove succede di tutto, dove camminibarcollandoefacendoacrobazie tra gente che dorme in terra. Ma chissà se le due ragazze fossero state di Milano. Davvero questotrenoèunporto.Sisale,si scende. E la carrozza 10 scoppia. A Bologna – il treno è puntuale al secondo–saleVale,unabimbadi sei settimane, ma non riesce nemmeno a raggiungere lo scompartimento. Piemontesi, lombardi, calabresi, pugliesi, marocchini e senegalesi se ne stanno accartocciati in ogni angolo libero. È la democrazia del treno.Sistainsieme,sicondivide il disagio. Non si litiga, anzi, si solidarizza. Ci si scambia qualche panino, sì, perché sul 791 non c’èunostracciodibar,dicarrello per il cibo. Niente. Qualcuno cerca di sconfinare nell’ultima carrozza. Il paradosso: mentre i vagoni letto scoppiano, la carrozzapiùnuova(la12)ètiepidae pulita, ma inaccessibile. Ognuno cerca un brandello di sonno, coltiva sogni di luoghi e volti lontani migliaia di chilometri. Non c’è, però, la straripante vitalità di un vagone indiano, ma un senso di grigia stanchezza. Alla fine il cronista e Mario Molinari (il registacheloaccompagna)riescono a infilarsi in due cuccette vuote. Ecco la notte in treno, una sofferenza che assapori goccia a goccia: la famiglia bolognese che ti accompagna scivola nel sonno. Ognuno con il suo respiro, quello più veloce della ragazzina, quello pesante dei genitori. Fuori ti passa accanto l’Italia. Attraversi città, paesaggi, climi diversi. Dallo spiffero del finestrino non entra più l’odore della neve, ma un profumo che sa di terra, via via di mare: l’Adriatico. Il treno cigola e si contorce con un barrito metallico.
Lo sbocco
sul mar Adriatico
LE MARCHE passano nella notte più fonda. E tu immagini il paesaggio con le parole del poeta-chirurgo marchigiano Luciano Roncalli: “Sempre una stazione esiste (esisterà)/ovunque (con poco calore) una sala d’attesa/entroilfreddocuoredell’inverno…/dove tu parlavi fitto/fitto la mano di lei stringendo teneramente”. Forse è così, anche in questomomento.Molinariprende immagini. Misura. In cuccetta ci sono 94 decibel di rumore, quasi come su una pista di aeroporto. Temperatura: 14 gradi, da battere i denti. Il “cuccettista” si affaccia allo scompartimento: “Sono arrivate le coperte”, e ti porge un pile nuovo di zecca. Ma proprio in quel momento il riscaldamento parte: “Tenetele. Regalo delle Ferrovie”. Quelle che avanzano finiranno abbandonate sul pavimento. L’alba illumina un cielo così diverso da quello di Torino: adesso l’azzurro è caldo, vicino, appoggiato sulla pianura dove i contadini stanno già lavorando. Trinitapoli, San Severo e alla fine Bari. Qui il destino dei viaggiatori si divide: metà convoglio andrà a Lecce,lacodaaReggioCalabria,unitaaunconvogliogemellopartito da Milano. Un’ora di pausa, scendi che barcolli e ti senti le orecchiemartellare.Sonopassatedodici ore, in aereo saresti già a Los Angeles, e sei in Puglia. Invece del jet-lag il train-lag. È lo stesso un’avventura: il treno si rimette inmotoedimenticaipasseggeri. “Decine di persone si sono messe a correre dietro ai vagoni… donne, anziani, bambini… una scena pazzesca”, racconta Rosa Spina. Succede anche questo sul 791, ma lo metti in conto. Come lafameelasete:maquandoarrivi in Basilicata, e dai finestrini ti vedi correre accanto i prati che scivolano in mare, con gli occhi ti aggrappi alle insegne di ogni bar. La richiesta è vana: “A bordo non c’è nulla”. Ti viene da imprecare contro le Ferrovie, ma il 791 racchiude i difetti e anche i pregi dell’Italia. “Faccia una corsa al bar della prossima stazione”. Roba da infarto, tre minuti per mangiare e pagare, altrimenti resti piantato a Policoro. E invece no, perché anche un macchinista scende per il caffè. Un treno su misura che ti aspetta. E, miracolo, l’orario è perfettamente rispettato.Anzi,aTrebisacceseiin anticipo. Certo, i tempi sono fissati su medie da bicicletta: 75 all’ora. Ma l’importante è arrivare. Esserci stati. Allora avanti, chilometri, stazioni scalcinate dove la cosapiùbellasonoimessaggisui muri: “Se hai bisogno di me, bacia la pioggia”.
“Si attraversano terreni collinari, argillosi… sempre più vasti, sempre più desolati, finché la coltura muore in paesaggio lunare di crete nude, d’un bianco grigiosomigliantealcoloredelleossa secche”, scriveva Guido Pio-vene nel suo “Viaggio in Italia”. Non ti serve consultare l’orario per capire che hai superato l’ultimoconfineeseiinCalabria.Ma il paesaggio descritto da Piovene neglianniCinquantaècambiato. E non in meglio.
Ovunque paesi cresciuti senza un centro, strade sghembe, mezze abbandonate e, però, illuminatedalampioninuovi,scheletri di case mezze abitate. Ma non è vero che la gente della Calabria non voglia parlare della propria terra e dei mali che l’affliggono. Anzi, pronuncia quella parola, “’ndrangheta”, senza che nemmeno tu glielo chieda. Diverse, però,sonoletinte,asecondadell’età. Attilio Cetti, da quarant’anni nelle Marche, è più amaro: “Vengo, perché questa è la mia terra. Ma mi ha dato così poco… la ‘ndrangheta asfissia”. Proprio comeMariaPolicarpoemigrataa Sesto San Giovanni negli anni Sessanta: “La mia casa ormai è a Milano. No, non mi sento traditrice. È la Calabria che mi ha tradito”. Ascoltare i giovani è diverso.EnzoDatena,28anni,studente di giurisprudenza a Milano, torna a casa per Natale. Se gli chiedisesisentacalabreseolombardo non ci pensa un attimo: “Sono italiano”.
L’ultimo confine
Benvenuti in Calabria
LOCRI, Bovalino, Brancaleone, nei campi affacciati sul mare compareunavegetazioneincontenibile: agrumeti con arance che piegano i rami, centinaia di ulivi contorti, secolari e un’erba giallachepareoro.Iltrenoèstanco, come i suoi ultimi superstiti: i bagni ormai sono lerci, senz’acqua e sapone, i water turati. Nei corridoi mucchi di lenzuola usate. Però dopo 1600 chilometri poteva essere peggio: il 791 approda a Reggio Calabria alle 18,05. Puntuale. Dalla stazione sulla riva ecco le luci dello splendido lungomare; di fronte la Sicilia che sembra avvicinarsi spinta dal vento. Quindici gradi, abbiamoattraversatol’Italiaelestagioni. Però, qualcosa di cupo ti accompagna. Saranno le nuvole basse che premono dallo Stretto o forse i titoli neri e pesanti dei quotidiani locali, sempre con quella parola “’ndrangheta”. Una cappa. Eccolo il paradosso della splendida e disperata Calabria (e dell’Italia): una regione tra le più povere è nelle mani di una forza che sta conquistando il Paese, dalla Lombardia, alla Liguria fino all’Emilia. Anche questo filo ha seguito il nostro treno. E non basta ripercorrerlo all’indietro per liberarsene. Ferruccio Sansa - SUL FRECCIA ROSSA INTERNET È SOLO UN BLUFF - Qualcuno ci aveva anche creduto. Gli annunci e le pubblicità sono state martellanti. E del resto, perché non fidarsi? Che cosa c’è di più semplice che dotare di una bella copertura wi-fi i treni Frecciarossa? Così uno sale, per esempio a Roma, e nelle tre ore di viaggio fino a Milano, o quattro fino a Torino, apre il computer, si collega alla rete, riceve e manda mail, naviga su Internet, saluta gli amici su Facebook, lavora o perde tempo, proprio come in ufficio. E invece niente, perché anche per il treno con il wi fi bisogna pagare il prezzo di essere in Italia, affidati al monopolio Trenitalia che le promesse deve solo farle, e non man-tenerle.
FUNZIONA COSÌ. Uno prova a collegarsi, si apre una bella videata di Trenitalia che si congratula con se stessa per l’ottimo servizio e ti dice che devi pagare. Niente di che: un centesimo per 24 ore. Però devi compilare un modulo complicatissimo, raccontare tutta la tua vita, e poi pagare con la carta di credito (un centesimo!), con procedura super farraginosa e lentissima. Cominci a chiederti chi te l’ha fatto fare, potevi fare come sempre, attivare il collegamento attraverso il tuo telefonino. Ma vuoi mettere la curiosità di navigare con il wi fi di Trenitalia? Avanti dunque, fino a che, dopo aver scaricato, lentamente, due pagine, la connessione cade. Si scoprirà che il collasso è dovuto all’ingresso nella stazione di Firenze. Quando il treno entra in stazione il servizio si interrompe. Perché? Mistero. Però riprende non appena il treno riparte. E ti chiede di rimettere la password, sennò devi ripagare un centesimo. Terrorizzato da dover ripetere i cinque passaggi del pagamento (a circa 5-6 minuti l’uno) chiedi fiducioso soccorso al numero verde. “Perché non ha memorizzato la password?”. Quale? “Quella che le abbiamo mostrato dopo il pagamento”. Vabbè, c’era il pulsante “naviga”, e uno dopo mezz’ora di procedura di pagamento si butta, imprudente. Ma adesso che si fa? Semplice, gli racconti un altro pezzo della tua vita (compreso il numero della patente) e il ragazzo ti regala una nuova password. Solo che all’ultima lettera cade la linea. Disperato rifai il numero verde e senti la voce dello stesso ragazzo. Che fortuna! “Macché fortuna, sono l’unico addetto”, risponde asciutto l’unico addetto. È subito amicizia. Ne scaturisce la spiegazione della lentezza. Praticamente ogni carrozza è collegata con la rete cellulare con una linea, poi “gira” la banda dentro il vagone. Quindi quelli che si attaccano al wi-fi si dividono la banda di una chiavetta; se si collegassero con le proprie chiavette avrebbero tutta la banda per loro. Grossomodo è così. Pare che il numero uno di Fs Mauro Moretti sia un po’ nervoso con Telecom Italia. I passeggeri Trenitalia a loro volta sono nervosi col mondo. Giorgio Meletti