Emma Lupano, ilsole24.it 22/06/2010, 22 giugno 2010
INTERVISTA A LESLIE CHANG, AUTRICE DI "OPERAIE": «I
lavoratori cinesi saranno sempre più consapevoli e esigenti. Ma il sistema non cambierà» -
Gli operai cinesi sono pragmatici. Poco inclini a correre rischi. E perciò più propensi a lasciare l’azienda che non li soddisfa, che a combattere per strappare condizioni migliori. Ecco perché Leslie Chang, americana di nascita e cinese di origine, già corrispondente del Wall Street Journal a Pechino e autrice del libro-reportage "Operaie" (Adelphi 2010), non si aspetta cambiamenti epocali dagli scioperi che hanno bloccato la Honda in Cina nelle ultime settimane o dai tentativi di rivendicazione messi in piedi dagli operai.
Una categoria, quella dei lavoratori delle fabbriche del sud del Paese, che Chang conosce bene, avendo vissuto per tre anni per le strade, nelle aziende e sugli autobus di Dongguan, città-fabbrica del Guangdong, simbolo dell’industrializzazione cinese e punto di approdo di milioni di contadini migranti in cerca di una vita migliore.
Leslie Chang, gli scioperi che si sono verificati in Cina nelle ultime settimane non sono il segno che qualcosa sta cambiando?
Lo sciopero della Honda non mi ha sorpresa particolarmente. In Cina ci sono molte migliaia di fabbriche, ce n’è sempre qualcuna in cui si stanno svolgendo delle proteste o degli scioperi. Per quanto riguarda il caso della Foxconn, invece, credo che la catena di suicidi non vada interpretata come una protesta. Durante la mia ricerca ho visto che in fabbriche gigantesche come la Foxconn la maggior parte dei suicidi dei lavoratori deriva da problemi personali o emotivi. Non dovrebbero quindi essere interpretati come una forma di protesta dei dipendenti.
Insomma: nulla di nuovo nel mondo delle fabbriche cinesi e nei suoi protagonisti, gli operai che migrano dalle aree rurali verso le città per lavorare.
Da tre decadi la Cina assiste alla più grande migrazione umana della storia, e il profilo delle persone che si muovono sta cambiando. Negli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta, chi si muoveva dalle campagne era spinto a farlo dal bisogno economico della sua famiglia e dal desiderio di costruirsi una casa nel proprio villaggio di origine. Questi migranti si impegnavano quindi in lavori stagionali nelle città e accettavano le mansioni più umili. Il loro punto di riferimento era ancora la campagna, dove tornavano ogni anno per dare una mano alla famiglia nei periodi della semina e del raccolto. Quando avevano fatto abbastanza soldi in città, si trasferivano nuovamente nelle campagne.
E i migranti di oggi?
La nuova generazione è cresciuta quando la migrazione era già considerata un mezzo per migliorare la propria vita. Più giovani e più istruiti, gli operai migranti di oggi sono spinti a partire non tanto dalla povertà, quanto dalla ricerca delle opportunità che la città può offrire. Aspirano a uno stile di vita urbano – i neo arrivati di solito investono il primo stipendio nell’acquisto di un telefonino, o in un taglio di capelli alla moda. Questi lavoratori selezionano gli impieghi. Preferiscono quelli in cui hanno la possibilità di apprendere nuove competenze rispetto a quelli basati soltanto sullo sforzo fisico. Sono più ambiziosi e meno tranquilli dei loro predecessori.
L’ambizione non li spinge a chiedere di più?
La nuova generazione di migranti è più esigente, ma questo non si traduce necessariamente in proteste più organizzate a livello lavorativo. I lavoratori cinesi in realtà affrontano con una frequenza sorprendente i loro superiori, ma lo fanno con azioni individuali: discutendo con il capo per una decisione ingiusta, o allontanandosi autonomamente dalla catena di montaggio per chiedere un trattamento migliore. Quando sono insoddisfatti, di solito, semplicemente se ne vanno. Lu Qingmin, una delle donne di cui scrivo nel mio libro, ha abbandonato un lavoro perché odiava il suo capo e un altro per sfuggire al fidanzato che voleva sposarla. Non dobbiamo dare per scontato che ogni migrante protesti. Più spesso, l’urgenza di andarsene viene prima di ogni altra cosa.
Eppure se gli scioperi esistono, deve pur esserci qualcuno che li organizza e che vi partecipa.
Naturalmente ci sono operai che sono attivi nell’organizzazione degli scioperi o nell’invocare, ad esempio, la nascita di sindacati indipendenti. Tuttavia, la grande maggioranza degli operai è troppo pragmatica per impegnarsi in una dimostrazione su larga scala che appare loro rischiosa e futile. Per molti di loro, la reazione di fronte a condizioni di lavoro insoddisfacenti è prendere e partire. Non restare e combattere.
Crede sia significativo che gli scioperi delle ultime settimane siano accaduti in fabbriche straniere?
Proteste e scioperi avvengono in ogni tipo di fabbrica, incluse quelle di proprietà cinese. Tuttavia, poiché la Honda è una azienda giapponese, e poiché il sentimento antigiapponese è forte in Cina, il governo potrebbe avere avuto meno interesse a fermare lo sciopero. A maggior ragione, viste le caratteristiche specifiche degli scioperi alla Honda, non c’è alcuna garanzia che si scateni una serie di azioni simili in altre fabbriche.
Dopo i fatti della Honda, alcuni commentatori hanno invocato la possibilità di creare sindacati indipendenti. Crede che questo avverrà?
Non credo che il governo cinese premetterà la creazione di sindacati indipendenti a breve. Ma è importante sottolineare che il governo sta assumendo un atteggiamento sempre più vario e sofisticato nei confronti delle proteste dei lavoratori. Nelle dispute più recenti, il governo locale ha in effetti mediato tra la Honda e i lavoratori, cercando di risolvere lo scontro. I funzionari in tutta la Cina hanno capito che la maggior parte delle proteste dei lavoratori è legata a lamentele specifiche e che non rappresenta un attacco più ampio contro il sistema. Mentre in passato i funzionari affrontavano queste proteste con la repressione e gli arresti, oggi vedono sempre di più i benefici del fungere da mediatori nelle dispute tra lavoratori e imprenditori.
Qual era il ruolo del sindacato quando si trovava a Dongguan?
Non ho mai incontrato un singolo lavoratore che fosse interessato o fosse in contatto con il sindacato. Per questo non ne ho scritto nel mio libro.
Come si aspetta cambieranno le fabbriche e gli operai cinesi nei prossimi 10 anni?
Penso che le condizioni continueranno a migliorare gradualmente, come già hanno fatto negli ultimi anni, e i lavoratori diventeranno sempre più consapevoli ed esigenti rispetto al tipo di lavoro che saranno disposti ad accettare. Ma credo che l’essenza del sistema non cambierà. In Cina ancora più di 600 milioni di persone vivono nelle campagne, quindi negli anni a venire l’offerta di giovani lavoratori desiderosi di lavorare nelle fabbriche continuerà a non mancare.