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 2010  dicembre 23 Giovedì calendario

IL CONTO DELLA CRISI LA PAGANO SOLO I CONTRIBUENTI


Oscar Wilde ha detto che l’esperienza è il nome che diamo ai nostri errori. L’anno scorso abbiamo provato ad analizzare gli errori che hanno spinto il mondo nella crisi economica, ora è tempo di analizzare gli errori commessi quando abbiamo cercato di uscirne. Quando l’anno scorso si è delineata chiaramente l’entità del problema, sono stati in molti a pensare che la crisi sarebbe stata mal gestita, quindi forse dovremmo essere grati del fatto che non sia stata gestita affatto.

Diversamente dalla Grande Depressione degli anni 30, i decision-makers hanno agito rapidamente, ignorando i dogmi che mettevano in guardia da interventi rapidi. Inoltre sapevano che, rispetto al periodo tra le due guerre, sarebbe stato necessario uno stretto coordinamento internazionale. Nel 2008-2009, l’influenza del G-20 è cresciuta, a scapito del G-8, perché ci si è resi conto della necessità di realizzare una governance realmente globale. E, alla fine, ci sono state diverse proposte utili.
L’esperienza, si sa, non è solo il nome che diamo ai nostri errori. Come ha dimostrato la crisi finanziaria, è anche il processo che ci consente di migliorare la nostra capacità di giudizio. Sfortunatamente, però, questo processo risolutivo non si è spinto molto lontano, e molte banche, governi e istituzioni internazionali sono tornati al business as usual. In effetti, oggi gli incendiari dell’economia globale sono diventati avvocati, e accusano i vigili del fuoco di aver provocato disastri. Al culmine della crisi, i governi avevano l’opportunità di creare una nuova infrastruttura finanziaria globale, ma se la sono fatta scivolare tra le dita. Il fatto che molte economie occidentali siano uscite dalla recessione non dovrebbe indurci a credere che la crisi sia stata solo un breve interludio, e che il mondo post-crisi possa ritornare allo status quo. Sono in molti a voler riscrivere la storia di questa crisi descrivendo gli effetti come se fossero le cause, e a considerare i governi che l’hanno gestita responsabili di averla fatta scoppiare.

Il punto più basso, forse al limite del ridicolo, è stato raggiunto lo scorso anno quando le agenzie di rating hanno intensificato la propria sorveglianza del debito governativo, e i mercati, vittime dell’incompetenza e della cattiva fede delle agenzie, hanno iniziato a fissarsi sulle loro valutazioni. Lehman Brothers aveva guadagnato un rating elevato proprio alla vigilia del suo collasso, eppure le agenzie di rating ora accusano i governi che hanno fatto uscire dall’abisso l’economia globale di aver violato i principi contabili.
Le agenzie di rating e i mercati sono davvero così poco informati sulla spesa pubblica? Secondo l’Fmi, i paesi del G-20 hanno accantonato in media il 17,6% del loro Pil per dare sostegno ai sistemi bancari, anche se alla fine per gli stimoli all’economia reale hanno speso solo lo 0,5% del Pil nel 2008, l’1,5% nel 2009 e probabilmente l’1% quest’anno. In totale, i piani di ripresa dei membri della Ue hanno raggiunto solo l’1,6% del Pil rispetto al 5,6 negli Usa. I governi hanno intrapreso le giuste misure per salvare le banche, ignorando però le conseguenze politiche. Dispensando vaste somme di denaro per salvare il sistema finanziario, senza avere reali garanzie in cambio, hanno dimostrato una mancanza di accortezza. Riconoscere quanto fossero incompetenti le agenzie di rating senza fare nulla per regolamentarle è stato imperdonabile.


La conseguenza è che probabilmente a pagare due volte saranno i contribuenti, una volta per il salvataggio e una volta per il debito di bassa qualità in cui sono finiti durante il salvataggio, come dimostrano i programmi di austerità presentati in Europa. Paradossalmente, la crescente percezione che una catastrofe sia stata scongiurata ha dato vita alla crescente necessità di tagliare spese pubbliche e sociali e di astenersi dal proporre programmi d’investimenti. Non è altro che un ritorno a quelle politiche che hanno inizialmente causato la crisi.
I governi, però, non sono colpevoli di aver ingannato il pubblico; se mai, hanno agito ingenuamente e ora stanno pagando caro. I governi possono, tuttavia, decidere di assumersi le proprie responsabilità ed esercitare il potere, anche se ciò significa nuotare contro la corrente dell’opinione pubblica. Se questo vuol dire aiutare ad alleviare la sofferenza sociale portata dalla crisi, allora i governi non hanno scelta. In effetti, non dovremmo dimenticare che la crescita economica è stata sostenibile solo nei paesi con sistemi di welfare sociale altamente sviluppati, come in Francia. Certo, questi paesi si riprenderanno a un passo più lento rispetto ad altri, ma si risolleveranno prima rispetto alle nazioni che sono sprofondate in un baratro profondo e che devono lavorare più duramente.
Forse, l’aspetto più importante è che puntare a una maggiore competitività, a prescindere dai costi, non farà altro che aggravare la crisi. Dopo tutto, le politiche di crescita trainate dall’export possono avere successo solo in caso di deficit da parte di altri paesi. Poiché a condurre verso la crisi sono stati gli squilibri globali, è chiaro che una maggiore competitività è pari a una vittoria di Pirro - e chiederà un pesante tributo al tenore di vita e ai consumi domestici.