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 2010  dicembre 23 Giovedì calendario

L’ARTE DELL’INTERVISTA, DA GINZBURG AI PICCOLI MAESTRI LA RIVISTA CHE INTERROGA IL MONDO

Quando rimasero a corto di risposte, cominciarono con le domande. Era il tramonto degli anni Ottanta, gli "anni di merce" che avevano trionfalmente soppiantato gli "anni di piombo". Erano sei "ex" assortiti, quattro di Lotta continua, due anarchici, anchilosati da un decennio di «isolamento, tivù e tifo politico passivo», di «ripensamenti ideologici anche radicali». Era Forlì, paesone romagnolo lontano da tutto. La loro scialuppa di salvataggio dagli anni Novanta, anni di niente, fu un foglione di carta, la loro bussola fu un registratore.
«Non eravamo intellettuali. Non avevamo teorie da scrivere. Allora ci mettemmo a chiederle». Nella saletta di redazione di Una città, che sembra il tinello di una vecchia zia, con la concola di mele e mandarini sulla tovaglia e i vecchi mobili scuri, Gianni Saporetti sfoglia con affetto le prime raccolte del mensile e ammette che vent´anni, nessuno se li aspettava. E che la longevità imprevedibile di quell´avventura iniziata alla garibaldina da sei ragazzi che vengono dagli anni Sessanta (storici) e viaggiano verso gli anni Sessanta (anagrafici) è tutta merito di quella scelta bizzarra di una rivista di sole interviste, lunghe interviste a professori e sconosciuti, a chiunque abbia una storia da raccontare, un´idea da spiegare. Oltre 2300 (tutte online sul sito) in quasi duecento numeri, per un migliaio e passa di abbonati fedelissimi che le attendono, le reclamano e danno uno stipendio part-time a tre redattori, pagando anche le modestissime spese di viaggio di qualche decina di intervistatori instancabili.
Alla svolta del ventesimo compleanno, tra poche settimane, Una città è oggi un piccolo miracolo di rivista senza pubblicità e senza finanziamenti, prodotta nel «ventre della provincia italiana» come una volta disse loro Cesare Cases (del resto anche Quaderni piacentini, li confortò Piergiorgio Bellocchio, nacque in provincia). Ed è soprattutto una piccola misconosciuta grande utopia giornalistica: è la passione, l´apoteosi, l´arte dell´intervista. «Ma quale arte...», si schermisce Massimo Tesei, che è un altro dei fondatori. «Se ascoltasse le registrazioni (le conserviamo tutte), ci compatirebbe. Le nostre domande sono balbettii, frasi allo sbaraglio, imbarazzanti».
Ed è questo il loro segreto. Vittorio Foa, divenuto loro amico (come quasi tutti gli intellettuali catturati dalla loro sincerità, Carlo Ginzburg, Grazia Cherchi, Alexander Langer, Adam Michnik, Michael Walzer, lo storico francese Pierre Vidal-Naquet che accettò il "grande onore" di scrivere prefazioni per i libri che affiancano da un po´ la rivista), li ringraziava per quei loro lunghi silenzi che gli permettevano di pensare, che non gli mettevano fretta. E Lisa Foa li ammirava: «Riuscite a far vuotare il sacco». Gli amici del Manifesto invece li sgridano, «ci accusano di essere troppo "sdraiati", di non contrastare, di non obiettare. È vero: siamo sempre sotto il tavolo. Per scelta. È la condizione per far parlare, per far divagare, per far dire quel che sarebbe restato dentro. Aris Accornero, ad esempio, dopo un lungo silenzio si mise a parlare di Marco Biagi, dicendo cose sulla sua solitudine accademica e politica che forse non avrebbe mai detto a un intervistatore incalzante».
L´arte dell´intervista, maturata in un ventennio, è dunque questa: il minimalismo (solo da pochi numeri le interviste sono firmate, su pressante richiesta dei lettori, anche le foto non hanno didascalie), il tempo lungo che ammette pause e silenzi, la disponibilità all´ascolto senza condizioni, senza presunzioni, che fa scattare la complicità nell´interlocutore popolare, lo sforzo pedagogico in quello colto. «Non abbiamo mai una vera scaletta. Ci prepariamo il minimo, perché quando l´intervistatore ne sa troppo l´intervista si congela. Le domande saccentine mettono in soggezione l´intervistato semplice e irritano quello colto», spiega Barbara Bertoncini, che fa parte della seconda più giovane generazione di Una città. «Il nostro ideale è il monologo, la nostra competenza è creare il setting giusto per liberare la narrazione dell´interlocutore: è un po´ il metodo della storiografia orale, solo che l´abbiamo capito dopo, a posteriori».
Nelle scuole di giornalismo insegnano che l´intervista è un corpo-a-corpo, che l´intervistatore deve strappare all´intervistato ciò che non vorrebbe dire: «Ma per noi è l´esatto contrario. Accettano invece l´altro requisito fondamentale: si intervista solo chi ha qualcosa da dire. Ma "qualcosa", a Una città, ha un´estensione vastissima. Hanno avuto qualcosa da dire sulle sue pagine filosofi, storici, scrittori di prestigio, ma anche il colono israeliano, la sopravvissuta della strage di Brescia, l´immigrato senegalese che rinuncia e ritorna a casa, il fascista, la maestra di strada di Secondigliano, il falegname comunista di Padova esasperato dal centralismo e dalla burocrazia che «ci ha fatto capire la forza di penetrazione delle idee della Lega», la casalinga col suo «manifesto di femminismo involontario»: persone senza personaggio, non emblemi ma storie, raggiunti uno per uno attraverso «reti basse», amicali, sotterranee, dirette.
Tutti sorpresi, coinvolti, catturati dall´inattesa facoltà di parlare per tutto il tempo necessario, liberi dalle battute smozzicate a cui ci hanno abituato i talk show televisivi plagiando in modo feroce la dialettica comune, anche quella dei bar. «Con noi no: si sciolgono, si dilungano, tacciono, riflettono, s´interrogano da soli, si sorprendono: ma come, sono già passate due ore? Abbiamo già finito? Avrei ancora qualcosa da dire...». Umiltà maieutica. «Ci ritelefona un professore: "ho alcune idee un po´ confuse su un certo argomento, mi intervistate?": ci usano come palestra, come tavolo di lavoro».
L´ingenuità naturalmente finisce quando il registratore si spegne. «Sbobiniamo tutto, parola per parola. Ore di parole da chiudere in un´intervista che sul giornale avrà al massimo trentamila battute, e già sono tante. Qui è il nostro lavoro vero». L´editing, però, è taglia-e-incolla: «Scegliamo, spostiamo frasi, ma non cambiamo mai le parole dette». In vent´anni, non una sola rettifica. Qualche fallimento sì: interviste che "non vengono", che "non raccontano": non buttate, però, solo accantonate. «A distanza di mesi, o anche anni, potrebbero improvvisamente diventare importanti». Migliaia di ore di registrazione, decine di migliaia di dattiloscritti di sbobinature: c´è un patrimonio immenso di umanità, società e cultura negli archivi di Una città. Mancano solo i politici: mai intervistato uno. «Non si sciolgono mai. Non divagano mai. Per loro un´intervista è solo uno strumento tattico, dicono solo quel che hanno già pensato di dire. Non capiscono che le domande vengono sempre prima delle risposte».