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 2010  dicembre 22 Mercoledì calendario

I SUCCESSI DI HOLBROOKE DIPLOMAZIA DEI TEMPI BREVI

In questa società che si divide su tutto, una triste notizia sembra avere avuto da parte dei commentatori un giudizio unanime: la validità diplomatica dell’ambasciatore Richard Holbrooke, improvvisamente scomparso. Quali erano le doti del diplomatico americano, inviato sui fronti molto «caldi» ?
Andrea Sillioni
Bolsena (Vt)
Caro Sillioni, ho conosciuto Holbrooke dopo le guerre balcaniche, alla fine degli anni Novanta, e l’ho sentito parlare più volte degli accordi di Dayton, conclusi nel 1995, che sono considerati ancora oggi il suo maggiore successo diplomatico. Poi, due anni fa, ho avuto una lunga conversazione con lui a Cernobbio sull’allargamento della Nato ai Paesi ex satelliti di cui era stato, all’epoca della presidenza Clinton, uno dei maggiori sostenitori. Holbrooke era stato invitato da Ambrosetti per l’incontro annuale di villa d’Este anche perché tutti sapevano che era nella cerchia degli amici di Obama e, soprattutto, che era candidato alla carica di segretario di Stato. Non era la prima volta. Anche nel 1997, quando Clinton decise di sostituire Warren Christopher alla guida del Dipartimento di Stato, Holbrooke, reduce dal suo trionfo balcanico, era pronto a prenderne la successione. Ma la scelta cadde su Madeleine Albright; mentre quella di Obama, dopo la vittoria del 2008, premiò come sappiamo Hillary Clinton, vale a dire la persona contro la quale si era battuto, in seno al partito democratico, per conquistare la candidatura. In ambedue i casi Holbrooke si comportò con grande correttezza. Collaborò lealmente con il nuovo segretario di Stato e accettò incarichi difficili: un ennesimo negoziato con Milosevic prima dell’inizio delle operazioni militari contro la Serbia nel 1999, e il compito di inviato straordinario in Afghanistan e Pakistan agli inizi del 2009. Le parole con cui Obama ha commentato la sua morte dimostrano quale fosse la sua reputazione nel servizio diplomatico degli Stati Uniti. Credo tuttavia che il fallimento della sua maggiore ambizione sia dovuto al suo carattere e alla natura dei suoi talenti. Holbrooke è stato uno straordinario negoziatore, tenace, instancabile, spesso brutale e minaccioso, ma anche, all’occorrenza abile e suadente. Quando si proponeva un risultato non si dava pace prima di averlo raggiunto. Il caso degli accordi di Dayton è particolarmente indicativo. Sapeva che Washington voleva la pace, che le capitali europee erano ansiose di uscire da una crisi in cui avevano dato prova di una imbarazzante irrilevanza, che Milosevic, a Belgrado, era disposto a chiudere la partita. Per portare tutti al tavolo dei negoziati, Holbrooke fece promesse, schiuse prospettive attraenti ed evitò tra l’altro di affrontare il problema del Kosovo, vale a dire la questione che avrebbe provocato di lì a poco un nuovo conflitto. Le affermazioni di Radovan Karadzic nell’intervista concessa a Mara Gergolet e Marzio G. Mian (Corriere del 16 dicembre) non sono oro colato, ma è certamente possibile che Holbrooke abbia promesso al leader serbo-bosniaco, durante le trattative con Milosevic, una sorta d’impunità. Credo che alla diplomazia di Holbrooke si possa applicare l’espressione usata da Mario Monti in un recente articolo, apparso sul Financial Times, per definire le misure adottate dall’Unione Eur
opea dopo la crisi del 2008. Sono misure «short term» , vale a dire destinate a produrre risultati a breve termine, ma poco adatte per curare i veri mali dell’Europa. Anche gli accordi di Dayton furono «short term» . Le precarie condizioni della Bosnia, lo scandalo umanitario del Kosovo (un traffico di organi umani che sarebbe stato organizzato dal gruppo partigiano dell’attuale primo ministro), l’inconcluso processo di Milosevic e i dubbi sorti su quello di Karadzic dimostrano che i veleni provocati dalla disintegrazione della Jugoslavia continuano a circolare nelle vene della penisola.
Sergio Romano