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 2010  dicembre 19 Domenica calendario

CHE BENEDIZIONE QUEL DENARO

Quando Sigmund Freud pubblicava le sue riflessioni psicanalitiche sul rapporto tra l’oro e lo sterco, egli aveva ben presente il relativo topos medievale, tanto efficacemente rappresentato nel capitolo XXXV della Vita seconda di Francesco d’Assisi redatta tra 1246 e 1247 da Tommaso da Celano. Si narra in tale testo che un frate, il quale aveva osato soltanto toccare una moneta lasciata in offerta da un fedele, fu da Francesco obbligato a uscire dal convento per strada e, tenendo il denaro tra i denti, di deporlo su uno sterco d’asino.

L’asino, umile eppur nobile animale, figura presente alla nascita di Gesù ed è la cavalcatura ch’Egli sceglie per entrar in Gerusalemme la domenica delle Palme, quando viene acclamato come re. Non meraviglia che il paziente equino faccia parte della simbolica cristica. Ma i simboli sono per loro natura polisemici: il loro significato dipende dal contesto nel quale figurano. Infatti, in differenti contesti, l’asino – orgoglioso, violento, testardo, lussurioso – è immaginato come simbolo demoniaco.

Tommaso da Celano e Sigmund Freud ci riportano all’espressione, passata in proverbio, che Jacques Le Goff ha richiamato appunto nel titolo del suo ultimo libro tradotto in italiano: un titolo molto ben scelto per indicare l’assunto e la tesi di fondo dell’illustre medievista.

Sarebbe difatti riduttivo e anzi addirittura errato il ritenere – come qualcuno ha fatto – che Le Goff "sottovaluti" il ruolo del denaro nel medioevo, scegliendo e privilegiando alcune fonti in luogo di altre e limitando il valore e il significato di testi che potrebbero apparire contrastanti con la sua tesi. Le cose non stanno affatto così. Riprendendo sotto certi aspetti – a mio avviso molto opportunamente – alcune sue ricerche ormai piuttosto lontane nel tempo (Marchands et banquiers, del ’56; La bourse et la vie, dell’’86), egli traccia una volta di più il quadro di un medioevo come «epoca in cui i punti di vista e le pratiche di uomini e donne erano molto diversi dai nostri»: e che quindi non può essere appieno inteso se non con un approccio non solo storico, bensì anche antropologico. È Jacques Le Goff stesso ad averci introdotto al concetto di «lungo medioevo», di «medioevo profondo» che si prolungò ben oltre i due secoli (dal IV al XVI) della "crisi" e del "mutamento", e che per tanti versi è giunto a lambire la stessa età contemporanea. Come Fernand Braudel ci ha insegnato, la storia procede per "velocità" differenti.

Certo però, questo è forse il punto, l’homo oeconomicus procede (e cambia) molto più in fretta che non, per esempio, l’homo religiosus. Forse, il denaro – relativamente poco presente e non troppo considerato nell’Europa prima della metà del Duecento – cessò di venir guardato come «sterco del demonio» e acquisì perfino lo statuto di strumento provvidenziale di carità oltre che mezzo per la realizzazione di obiettivi economici e politici all’indomani di quel periodo: e c’è da chiedersi se non sia stato il tempo che Roberto S. Lopez ha indicato come quello del «ritorno dell’Occidente alla coniazione aurea» come l’età nella quale le stesse strutture mentali degli europei presero a mutare.

Sarebbe molto interessante seguire le argomentazioni di Le Goff a proposito del ruolo del francescanesimo – cioè proprio di quel movimento nato da un deciso avversario del denaro quale il Povero d’Assisi – nella rivoluzione avviata alla fine del Duecento e culminata due-tre secoli dopo a proposito del denaro, del credito e dell’usura. Qui, intenso si è fatto il confronto con un nostro valoroso studioso, Giacomo Todeschini, specie attraverso la rispettiva diversa valutazione che i due storici forniscono del De contractibus di Pietro di Giovanni Olivi, frate minorita erto, ma – rileva Le Goff – "atipico". Eppure, come nel primo Quattrocento si vedrà a proposito del pensiero di un altro francescano, Bernardino da Siena, furono proprio i frati di quell’Ordine a impegnarsi per una diversa (e più "moderna") valutazione del rapporto tra prestito a interesse e usura: un passaggio fondamentale appunto verso la modernità.

Quel che qui preme sottolineare è il ruolo fortemente simbolico, non solo economico, che Le Goff sottolinea a proposito del denaro e della circolazione monetaria: dalle funzioni connesse con la pietas religiosa (la committenza d’opere d’arte sacra, le elemosine a titolo di penitenza) a quelle collegate all’ostentazione del potere (il mecenatismo, il lusso), emerge una considerazione medievale del denaro radicalmente diversa da quella moderna – che gradualmente si afferma con le "nuove ricchezze" e le "nuove povertà", dal tardo Duecento in poi – che conduce alla sostanziale negazione che l’economia avesse un ruolo autonomo nel mondo medievale e che quindi non sia lecito parlare, per tale periodo, non solo di "capitalismo", ma neppure di "precapitalismo". Si potrebbe in fondo concluderne (accogliendo i suggerimenti della studiosa Anita Guerreau-Jalabert) che il medioevo "finisca" là dove viene meno il modello dell’«economia del dono», fondata sul concetto di caritas; e che la modernità nasca nel momento in cui sorge un differente pensiero, radicato nel valore del profitto in quanto tale – fine e non più semplice mezzo – e sulla sua indefinitiva dilatazione. Ma non è forse ciò parte fondamentale della genesi dell’individualismo? E non è forse il primato dell’individualismo a proporsi come l’essenza stessa della modernità occidentale?