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 2010  dicembre 21 Martedì calendario

Il mondo nuovo del Made in Italy uscito dalla crisi - Dopo il lungo inverno e il crollo 2009 (-20,9%), l’export italiano torna a risalire la china del burrone

Il mondo nuovo del Made in Italy uscito dalla crisi - Dopo il lungo inverno e il crollo 2009 (-20,9%), l’export italiano torna a risalire la china del burrone. Chiuderà il 2010 segnando +10,3%, per una stima di crescita media nel triennio 2010-2012 pari all’8,4% (+8,1% nel 2011 e +6,7% nel 2012). Ma per tornare ai livelli pre crisi bisognerà aspettare almeno il 2013, quando le nostre esportazioni toccheranno i 395 miliardi di euro (nel 2010 sono 322 miliardi, nel 2011 348 e nel 2012 371). A rivelarlo è il rapporto Sace 2010-2014 dal titolo Qualcosa è cambiato. Uno studio pieno di numeri e tabelle sul made in Italy che verrà. Probabilmente ben più di qualcosa è cambiato con lo tsunami globale. L’economia italiana nell’ultimo biennio ha dimostrato una forte capacità adattiva alla crisi, tipica di un paese a forte propensione «sommersa», puntellata da ampie sacche di economia informale, una struttura assistenziale forte e stabile insieme ad un welfare diffuso, magari iniquo ma prezioso, dalle pensioni sociali a quelle di invalidità. Ma la ripartenza è un’altra cosa e senza le mitiche riforme di struttura che ci chiede l’Europa è destinata a restare a singhiozzo, senza spalmarsi su tutta l’economia. Le imprese-cicala negli anni grassi, sottocapitalizzate, rimaste nel calderone dei terzisti senza specializzazione, oggi soffrono maledettamente, impiccate ad un mercato domestico stagnante; le imprese-formica che hanno avviato processi di ristrutturazione ben prima della gelata mondiale, stanno invece crescendo forte sui mercati internazionali, gonfiando ordinativi e redditività. Non solo export, ma una vera e propria internazionalizzazione. La conferma arriva dagli ultimi calcoli di Bankitalia: «tra le imprese industriali con più di 50 addetti che hanno investito in ricerca e sviluppo nel triennio precedente la crisi, l’aumento di fatturato 2010 è nell’ordine del 6 per cento». Ecco la grande differenza che restituisce, in filigrana, il rapporto Sace sull’export. Una macchia di leopardo che ci fa somigliare più a paesi come Francia, Canada e Giappone che ai campioni tedeschi, le cui esportazioni sono spinte da un recupero di produttività (2002-2006) nel manifatturiero che in Italia ci sogniamo. Diversi dagli stessi Stati Uniti, che allo scoppio della crisi hanno puntato sull’export per ridurre il deficit mostre della loro bilancia commerciale. Eppure per chi sa innovare la nuova geografia dei mercati post crisi sta diventando un bazar pieno di occasioni, a patto di completare la transizione. L’Italia è pigramente a metà del guado. Ad oggi sono "solo" 26mila le imprese grandi esportatrici «tecnologizzate o capaci di compiere una specie di salto innovativo con scarto laterale, che le fa sconfinare in settori vicini in grado di generare nuove quote di mercato pari al 20 per cento», come spiegano le ricerche di via Nazionale coordinate da Salvatore Rossi. Il loro numero deve crescere, densificarsi, pescare tra quei piccoli avvinghiati illusoriamente al feticcio del brand che rinunciano a competere sul terreno della tecnologia. Potranno crogiolarsi ancora per poco. Il rapporto Sace sul punto resta ottimista. Dalle stime sul prossimo triennio emerge una crescita sostenuta del nostro export verso i maggiori mercati emergenti (Brasile, Turchia e Cina): dopo il +13,6% del 2010, sarà mediamente superiore al 9% annuo, tre punti in più della performance attesa verso i mercati più tradizionali, la cui incidenza diminuirà restando tuttavia preponderante (dal 68% del 2005 al 58% del 2014). Se splittiamo il dato per macro aree, in America Latina la crescita complessiva delle esportazioni italiane segnerà un +14% medio annuo sul triennio 2010-2012, grazie a Brasile (+16,9%) e Cile (+11,1%). In Asia l’incremento sarà del 10%, con Cina e India in pole position (rispettivamente +13,1% e +12%), e Indonesia (+12,6%) e Malesia (+12,3%) in scia. Turchia e Russia si confermano invece i mercati di punta dell’Europa emergente, con una crescita nel triennio, rispettivamente, del 15,8% e dell’8,2 per cento. In Nord Africa, dove l’accordo di Agadir unifica una fascia di 120 milioni potenziali consumatori dall’Atlantico al mar Rosso, l’export italiano registrerà un +7,6%, trainato soprattutto dalla domanda tunisina di beni intermedi. Promettente anche la penetrazione in Africa Sub-sahariana, specie in Nigeria (+10%) e Sudafrica (+8,9%).Unico indice negativo: il Medio Oriente, dove pesa almeno sul 2010 lo sboom immobiliare. Solo dal 2011 ripartiranno i mercati di Arabia Saudita (+4,6% nel triennio) e Qatar (+4,9%). Anche qui, tuttavia, le stime vanno prese con le pinze: se cresce a due cifre la percentuale di export verso il mondo nuovo, la fetta più grossa della torta tricolore rimane quella sui mercati tradizionali a crescita lenta, dove le nostre imprese continueranno a fare la maggior parte dei fatturati: 218 miliardi di euro sui 371 previsti nel 2012. In sostanza, ci conferma Sace, la ripresa soffia impetuosa grazie alla domanda dei paesi Bric dove le nostre merci sono (relativamente) poco presenti. Il corpaccione delle nostre Pmi non si è ancora agganciato alle filiere internazionalizzate. Il che rende impossibile compensare automaticamente la minor crescita in Eurolandia con il boom del Far East. Consumatore non scaccia consumatore. La stessa struttura settoriale delle esportazioni è destinata a cambiare nel mondo dopo la crisi. Le stime indicano all’interno della torta complessiva del nostro export un incremento del peso di beni intermedi (dal 27,3% del 2009 al 29,9% del 2014) come metalli e chimica-farmaceutica e di beni d’investimento (dal 40,7% al 41,5%), in primis la meccanica strumentale di cui siamo il quarto player mondiale, rispetto alla riduzione graduale dei beni di consumo tipici del made in Italy (prodotti alimentari, moda e arredamento), che difficilmente registreranno tassi superiori al 5%. Un altro incentivo a navigare in mare aperto, diversificare la nostra economia e i suoi paesi di sbocco. O bere o affogare. Il mondo nuovo non aspetta.