Emanuela Audisio, la Repubblica 22/12/2010, 22 dicembre 2010
UNA FACCIA WESTERN CHE NARRA UN´EPOCA
Aveva la faccia da ct. Quelle su cui passano le maree del tempo. Una pergamena che il vento aveva sgualcito e teso. Un viso di silenzio, anzi un crepaccio, attenti a non cadere. Quelle che hanno certi uomini (ed emigranti) che guidano vite e destini in solitudine, spesso controvento. Screpolate da tutto, dai racconti dei vecchi, dalle notti insonni. Alla John Huston, all´Humphrey Bogart, ma anche alla Gino Bartali. Epiche, irregolari, carsiche. Quasi da film western. Un geroglifico su cui ci leggevi avventure e fatiche: montagne da scalare, fiumi ampi da attraversare, bivacchi davanti al fuoco, deserti e tabacco. E piccoli cimiteri di famiglia dove si nasce e si muore, dove nel lungo sonno si sta tutti insieme. Una faccia così non poteva scomparire ai Caraibi o alle Maldive, ma sulla sua terra da Albero degli Zoccoli.
Gli occhi non erano timidi, ma acquosi, accoglienti, neve fresca su cui rotolarsi. Anche se a volte severi. Sentivi che dietro c´era uno sguardo che vedeva. E diceva: ragazzo, abbi rispetto di te stesso. Gli occhi di chi è invecchiato sul campo e in panchina, a servizio di un´idea collettiva, noi non io, della patria (la nazionale), non del successo personale. Nessun club, ma una carriera lenta, paziente, fatta di attese, di prossime volte, di piccole consapevolezze, non di arroganza frettolosa. Occhi che diventavano tempesta di neve, se qualcuno si permetteva di disonorare i suoi uomini, la sua stessa carne, come si permettevano? Occhi pieni di stupore e di meraviglia, quando a cavalcioni dei suoi ragazzi, sembravano dire: ma dai, mettetemi giù, non è il caso. Proprio stupito che si potesse festeggiare un titolo mondiale in maniera così bambinesca. Perché in fondo portare a casa il risultato significa solo avere fatto bene il proprio lavoro, no? Occhi da maestro che spiegavano con calma al presidente Pertini, assai imbestialito, cosa fosse andato storto nello scopone ad alta quota più famoso della storia. Gli stessi occhi capaci senza isteria di illustrare un movimento a Bruno Conti, e di capire quei fantasmi segreti che di notte non facevano dormire Marco Tardelli. Perché all´alba Bearzot era lì, in poltrona. Come se aspettasse sempre che il camino finisse di ardere. Braci, appunto. Sapeva riscaldare cuori, far sbollire ansie, intanto era mattina e uno si sentiva un figlio coccolato, più leggero con le sue responsabilità.
E il suo sorriso: dolce, puro, non una finta. Che proprio non te l´aspetti da un friulano pieno di pudore. Sì, il sorriso era da bambino, da compagno di giochi, rivelatore di ingenuità. Come quella giacchetta a righe azzurre nella notte del mundial, un po´ da gelataio, da Mary Poppins, da venditore di palloncini. Non s´impara da una faccia così, ma la si riconosce. Perché ti svela tutto, sempre. Con sincerità. Senza parole: un´epoca, un modo di fare, una morale. Non resta che chinare la testa. Perché il silenzio, accompagnato da un sorriso, è sempre una lezione.