Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 19 Domenica calendario

Camilla e i giovani di Roma - Molti inglesi, vedendo nelle prime pagine grandi foto di scontri, fiamme, lampi fumogeni, auto rovesciate, gente in fuga, avevano stentato a capire che quelle immagini di guerriglia urbana provenivano da Roma anziché da Londra

Camilla e i giovani di Roma - Molti inglesi, vedendo nelle prime pagine grandi foto di scontri, fiamme, lampi fumogeni, auto rovesciate, gente in fuga, avevano stentato a capire che quelle immagini di guerriglia urbana provenivano da Roma anziché da Londra. La momentanea confusione o sovrapposizione ottica era più che comprensibile, dato che la gente, qui, è appena uscita dal caos. Si potrebbe dire che, visti da Londra, gli atti di guerriglia esplosi il 14 dicembre nelle piazze romane e il 15 in quelle di Atene siano apparsi in qualche modo intrecciati e influenzati dalla rivolta degli studenti britannici. Rivolta culminata il 10 dicembre nell’attacco con vernici e rifiuti alla Rolls Royce degli esponenti della casa reale. Il contagio è sembrato manifestarsi con particolare intensità negli slogan di battaglia dei casseurs italiani che, in certi casi, hanno riecheggiato alla lettera quelli dei consimili vandali inglesi: sul lungotevere Marzio una Mercedes nera, evocante la regale Rolls Royce, è stata incendiata al grido «siete tutti come Carlo e Camilla!». Quanto una certa Europa sia diventata stretta, nevrotica, insofferente di se stessa, lo dimostra proprio quell’allusione nominalistica e sardonica approdata in un baleno dal Tamigi al Tevere. «Carlo» e «Camilla», vilipesi contemporaneamente in due capitali europee e trasformati, addirittura, in sigle negative d’ingiustizia sociale, di riforme scolastiche intollerabili, d’insani complotti orditi da dicasteri reazionari contro la spesa pubblica e il Welfare perenne. Probabilmente tutto questo potrebbe far rivoltare nella tomba un John Maynard Keynes, critico sì del capitalismo conservatore, gran patrono di un Welfare pressoché estremo, ma al tempo stesso leale funzionario e stimato consigliere dei governi di Sua Maestà dal dopoguerra di Versailles fino alla conferenza di Bretton Woods. La Big Society Forse vale la pena di soffermarsi un momento, in questi giorni di traumi temperati da progetti onirici di una «big society», sulla complessa figura di Keynes. Furono sue le idee che, negli anni della Grande Depressione, contribuirono a risanare il capitalismo in panne delle maggiori democrazie con suggerimenti e interventi che sapevano di socialismo. In Inghilterra, in America, anche in Europa continentale, diversi sociologi e politici lo rievocano come un toccasana con cui disperdere le ombre della nuova depressione che oggi mette a serio rischio la stabilità dei più evoluti Paesi occidentali. Keynes era un economista sinistreggiante, con un tocco molto british, direi molto alla Ruskin, di dilettantismo d’alta classe. Umanista oxoniano in senso lato, ostile al laissez-faire, censore dell’avidità di denaro, non si dava però le arie di una fanatica vestale dell’economia pura. Lui, che nel periodo tra le due guerre aveva rovesciato la teoria e la prassi economica delle società liberali in crisi, stimolando l’interventismo programmato dello Stato e il New Deal rooseveltiano, usava dire modestamente: «Non dobbiamo sovrastimare l’importanza del problema economico, o sacrificare alle sue presunte necessità altre materie di maggiore e più duraturo significato. L’economia dovrebbe, ad esempio, essere una materia per specialisti non troppo dissimile dall’odontoiatria. Sarebbe davvero magnifico se gli economisti riuscissero a farsi percepire come una categoria di persone utili e competenti: come i dentisti, appunto». Secondo alcuni, il trapano odontotecnico, suggerito a suo tempo da Keynes, lo si dovrebbe adoperare oggi esclusivamente come strumento d’urto per compiere operazioni d’intervento terapeutico contrarie a quelle raccomandate dallo stesso Keynes. Il mezzo keynesiano dovrebbe prevalere sui fini keynesiani. In altre parole, bisognerebbe prosciugare e spostare la dottrina generale di Keynes a destra così come Marx capovolse la dialettica di Hegel a sinistra. Se ho ben capito quanto mi dicono certi navigati operatori della City, il governo Cameron-Clegg, dominato nei ministeri chiave dai conservatori, doveva, deve e dovrà fare esattamente ciò che sta facendo. Irrobustire, cioè, i poteri dell’esecutivo, attivando l’interventismo statale non per aumentare la spesa bensì per decurtarla; non per elevare le tasse bensì ridurle; non per mantenere ampio lo spettro di vantaggi del Welfare, elargito anche ai meno bisognosi, bensì sfoltirlo o quantomeno limarlo negli eccessi assistenziali troppo indulgenti e troppo paritari. Tale strategia d’urto, basata su severe manovre di risparmio di un bilancio inquinato da un debito pubblico intorno all’ottanta per cento del Pil, che non è ancora «il Pil della felicità» secondo Cameron, è stata accettata stoicamente dai cittadini adulti. Non ha fiatato il mezzo milione d’impiegati statali minacciati di licenziamento, i lavoratori dei servizi pubblici hanno reagito fiocamente, non sono scese sul sentiero di guerra le inquiete Trade Unions che difendono diritti e salari degli operai e condizionano il voto del partito laburista. Almeno finora non si sono visti prolungati scioperi di massa. S’è vista invece, come ho accennato all’inizio, la violentissima reazione di trentamila studenti e ricercatori in protesta per il balzo delle tasse universitarie, le tuition fees . Reazione di rivolta del tutto inaspettata, alluvionale, per tanti aspetti scandalosa e perfino sacrilega sul piano dei valori e dei miti nazionali. Lordata la pesante statua di Winston Churchill; strappata la bandiera del glorioso Cenotaph dal figlio di un chitarrista dei Pink Floyd; frantumati i vetri del Ministero del Tesoro che ha triplicato le rette accademiche; insultato come «Giuda Iscariota» e «bastardo» il vicepremier Nick Clegg, che in campagna elettorale s’era dichiarato contrario all’aumento della tassazione. L’offesa ai Reali È accaduto perdipiù qualcosa che almeno da due secoli non accadeva in Gran Bretagna. Particolarmente grave e dissacrante è apparsa, agli occhi degli inglesi, l’onta inflitta dai manifestanti, oltreché alla consorte, alla placida figura del principe Carlo, sovrano in pectore che già esegue, al fianco della madre Elisabetta, doveri e funzioni d’ordine costituzionale. La dinastia di un regno faticosamente unito nel passato e nel presente, stimata in tempi di pace e di guerra, era finora per quasi tutti i britannici, di destra o di sinistra, un’istituzione popolare e intoccabile. Questo può spiegare la gravità anche storica dell’affronto inferto per la prima volta, nella persona del principe ereditario, alla Corte di San Giacomo, simbolo di una coesione unitaria e patriottica che va ben al di là di Buckingham Palace. Le cicatrici Non basterà, certo, una passata di spugna a cancellare le cicatrici lasciate dall’uragano non solo sui monumenti violati e negli animi, profondamente turbati, della gente comune. In particolare, non basterà a sedare le contrapposizioni tra gli esponenti di una maggioranza non sempre concorde nella decisione di eliminare, a colpi d’ascia, le anacronistiche quanto gravose zavorre dell’impero che non c’è più. Il rude realismo, con cui i conservatori intendono contrarre o addirittura svuotare il ridondante Welfare, ha il suo inevitabile costo politico in termini di voti e di consenso. Le incipienti incrinature, causate soprattutto dalla riforma universitaria, sono duplici: da un lato contrappongono il blocco conservatore a quello minore dei liberaldemocratici, dall’altro serpeggiano trasversalmente all’interno di ciascuno dei due blocchi. I più imbarazzati e smarriti restano comunque i libdem che, alla vigilia elettorale di maggio, avevano assicurato agli studenti un appoggio che poi non sono stati in grado di esercitare. Non a caso la riforma, voluta con forza dal premier Cameron e sostenuta obtorto collo da Clegg, la settimana scorsa è passata al Parlamento per il rotto della cuffia con 323 sì e 302 no. Alla nutrita opposizione laburista si sono unite le defezioni liberaldemocratiche. Hanno votato a favore ventotto deputati libdem, cioè la metà della loro rappresentanza parlamentare, ventuno hanno votato contro e otto si sono astenuti. Non a caso solo otto tories hanno votato contro, mentre due sottosegretari libdem si sono dimessi dal governo per opporsi con un voto negativo al vicepremier Clegg, leader del loro partito. Un influente deputato liberaldemocratico ha pubblicamente ammesso che «ci sono momenti in cui bisogna riconoscere che l’esecutivo sbaglia». Per Nick Clegg lo sbaglio è stato pesantissimo. È lui, personalmente, che paga un conto amaro dopo essersi imbarcato da posizioni minoritarie in una coalizione in cui i principali dicasteri, Tesoro, Sanità, Istruzione, Affari esteri e Interni sono occupati da ministri conservatori. Il comandante della corazzata fra tempestosi marosi di guerriglia è David Cameron; ma quasi nessuno lo attacca perché, dicono, «era un duro conservatore prima del voto e tale è rimasto anche dopo il voto». È invece il suo luogotenente Clegg il megabersaglio che attira oggi gli insulti, in certi casi atroci, di milioni di elettori delusi, soprattutto studenti, che avevano votato il partito liberaldemocratico quale alternativa «progressista» al moribondo governo dei laburisti. Un maligno articolo pubblicato dal Financial Times, che non gli risparmia critiche e rimpianti, ha reso noto che i protestatari hanno infilato addirittura un pacco di escrementi nella sua cassetta postale. Il crollo libdem Frattanto il crollo liberaldemocratico nei sondaggi è vertiginoso. L’accusa principale che la sinistra libdem muove a Clegg è di aver tradito, appena entrato nell’esecutivo di coalizione, le belle promesse elettorali compiendo uno spregevole U-turn ovvero una conversione a U. Anziché conferire un timbro più liberale alla coalizione, avrebbe messo l’immagine liberale al servizio della scure dei conservatori, appoggiando in sostanza la loro inflessibile politica d’austerità pur fingendo, ogni tanto, di smussarla qua o là. Ma, nonostante la virulenza dei ripudi che lo sommergono, Clegg sembra tuttavia deciso a inchiodarsi al suo posto di vice primo ministro. Cercherà, sicuramente, di non interrompere la durata quinquennale della legislatura nella speranza di potersi riabilitare, davanti al suo pubblico esigente, col referendum di primavera sulla modifica della legge elettorale basata, finora, sulla ferrea diarchia fra conservatori e laburisti. I delusi potrebbero tornare a sorridergli se l’esito referendario riuscirà almeno a scalfire, in attesa di un regolamento proporzionale, quella legge capestro che nella distribuzione dei seggi favorisce soltanto due partiti, il vincente e il perdente, Tory o Labour che sia, vanificando il cumulo di voti raccolti dal terzo contendente liberale. Osservatori imparziali ritengono che Clegg, pur avendo incassato troppe disfatte in meno di un anno, non desisterà dal percorrere fino in fondo la strada del «compromesso storico» all’inglese con David Cameron. Molte cose, oltre all’età e all’ambizione, assimilano i due quarantenni desiderosi di cambiare, insieme, il volto della Gran Bretagna e definirne meglio la collocazione sulla scena europea e planetaria. Il retaggio castale, gli studi negli atenei più privilegiati, l’ordinata vita matrimoniale, la statura snella, la «bellezza inutile», come ha detto un critico malizioso, conferiscono alla più giovane coppia di governanti della storia britannica un’impressionante somiglianza nell’aspetto fisico, nel gesto, perfino nell’eloquio: l’esitante e sofisticato Queen’s English. Al di là delle differenze ideologiche, che ormai si vedono poco, sembra unirli un patto di complicità esistenziale oltreché politica: un patto che mette radici in un’origine sociale tanto parallela da farsi quasi antropologica. Giocando ironicamente sullo scambio dei nomi propri, i giornalisti, certo non a caso, hanno chiamato «Nick Cameron» il conservatore e «David Clegg» il liberale. Quasi una coppia di sosia, più che di consimili. La rotta della nave rimarrà ovviamente fissa sulla bussola di Cameron. Ma Clegg sa benissimo che i nostromi, quando si tengono stretti e leali al comandante, possono durare a lungo. La sua rotta seguirà quella della nave. Scomunicato da una metà del partito, abbandonato dai due terzi dell’elettorato liberale, il vicepremier dà la netta impressione di voler presidiare, malgrado tutto e tutti, le postazioni conquistate nei pressi del timone ed energicamente garantite dal suo doppio supremo.