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 2010  dicembre 21 Martedì calendario

PROUST E IL FASCINO DELLA DICERIA

Sbaglia chi pensa che il destino beffardo risparmi gli uomini di genio. La fortuna di ciascuno di noi - genio o imbecille che sia - è per lo più legata a una diceria. Chi può dirsi immune dal fascino del pregiudizio? È difficile che il nostro pensiero su un individuo non finisca con l’ aderire a quello di tutti gli altri, di solito formatosi nel modo più rocambolesco. Avviene che di un politico si dica: «Quello sì che è intelligente» senza però spiegare perché lo sia. E di un altro: «Ecco un vero cretino» senza che venga offerta alcuna prova della sua dabbenaggine. Hanno senso tali giudizi? Di solito non ne hanno alcuno. Sono frutto del concatenarsi di circostanze felici o sfavorevoli. Quasi mai il risultato di un sereno approfondimento. E quindi sono di per sé inattendibili. Il guaio è che il nostro pigro cervello è troppo stipato di cose per non affezionarsi al giudizio più in voga. Il che ci rende tutti portatori sani di disinformazione. E, allo stesso tempo, vittime del mito che gli altri ci hanno cucito addosso.
Prendete Marcel Proust. Ha condotto una vera e propria campagna militare contro lo snobismo. Ce l’ ha messa tutta per denunciare il più viscido degli istinti sociali, mostrandone ogni sfumatura. Ci ha illustrato come lo snobismo proliferi nella debolezza, nell’ ottusità e in una specie di immoralità del cuore.
E tutto questo scialo di sottigliezza per cosa? Per essere ricordato come lo scrittore snob per eccellenza!
Dicerie e pregiudizi, per l’ appunto. Che, quando se ne ha l’ occasione, è igienico tentare di sbaragliare. Stavolta l’ occasione per farlo mi è offerta dall’ uscita in Italia di un testo intitolato Gelosia (Editori Riuniti), mirabilmente tradotto da Cristiana Fanelli, e introdotto con la solita delicatezza da Daria Galateria. Centosessantasei pagine bollenti, al centro di uno dei misteri più affascinanti della filologia proustiana.
Un giallo di cui si occupò Giovanni Macchia, in uno dei suoi ultimi scritti (tra i più belli) intitolato Il romanzo di Albertine. Di cosa si trattava?
Era l’ estate del 1921 quando Proust ricevette dalla rivista «Les uvres libres» la proposta di pubblicare una qualche sua opera inedita. Decenza e buonsenso avrebbero dovuto consigliarlo di rifiutare. Ma come? Era sull’ orlo della tomba. Angustiato dall’ impellenza di dover chiudere il cantiere della sua immane cattedrale. Pubblicava già con la rivista più à la page, e presso il più serio degli editori. Come poteva farsi tentare da un giornaletto di dubbia reputazione la cui unica qualità era quella di essere stampato in decine di migliaia di esemplari e distribuito persino nelle stazioni ferroviarie?
Be’ , che Proust non fosse immune dalle lusinghe della celebrità lo aveva già dimostrato un paio di anni prima quando, per aggiudicarsi il Premio Goncourt, aveva messo in piedi macchinazioni mafiose di fronte alle quali ogni odierno Strega trascolorerebbe. Sì, certo la gloria postuma è una gran cosa. Ma Proust era troppo disincantato per non sapere che quella in vita può essere assai più piacevole. Proust non era un tipo zen, come Kafka. Non era mai riuscito ad accettare serenamente la sua irrilevanza sociale. Era attratto dal successo. Il desiderio di essere accolto era sempre stato il suo problema, sin dagli anni dell’ adolescenza... E, inoltre, lui - il recluso per antonomasia - sognava di poter comunicare con il maggior numero di persone là fuori. C’ era qualcosa di infantile nella ricerca di notorietà e di consenso! E ora che entrambi gli venivano offerti su un piatto d’ oro da «Les uvres libres», come rifiutarli?
Il problema era un altro: cosa dargli? Non poteva mettersi lì a lavorare a una nuova opera. Quando sei immerso fino al collo nella Recherche, non hai tempo per altro. Allora ecco il colpo di genio (da un punto di vista del marketing editoriale). Gli avrebbe rifilato un bel pezzo ancora inedito di Recherche. E più precisamente quello riguardante l’ amore del Narratore per Albertine: dalla comparsa della gelosia alla morte di lei. La teoria di Macchia è che Proust riuscì a consegnare soltanto i primi due libri di questa specie di bignami della Recherche (il primo intitolato Gelosia, il secondo Precauzione inutile). Il terzo e conclusivo era quasi pronto, ma poi sopraggiunse la morte, e gli eredi preferirono farlo sparire. Finché ricomparve molti anni dopo (nel 1987) spacciato dall’ editore Grasset per la versione autentica del penultimo libro della Recherche, Albertine scomparsa. Una versione, a detta del nuovo editore, «più breve, più densa», ma, in realtà, imperdonabilmente mutilata, in cui, sacrificati alcuni passaggi fondamentali, resistevano solo le parti amorose.
Il mistero di tale amputazione sconvolse i proustiani. Almeno finché Macchia non spiegò l’ arcano: ricordando a tutti che negli ultimi anni della sua vita Proust lavorava sia alla propria fortuna ventura, sia alla popolarità tra i contemporanei. Ecco spiegata l’ esistenza simultanea della versione lunga e di quella breve, di quella facile e di quella difficile, di un così formidabile capolavoro. Ricordate le edizioni di Guerra e pace spurgate delle centinaia di pagine di battaglie, per dare maggior ritmo e risalto alle vicende familiari? Ecco, una cosa del genere. Il fatto strano è che l’ idea fosse di Proust e non di qualche editore spregiudicato. Macchia ha ragione: Proust voleva essere considerato un «grande narratore» non un «prosatore d’ arte». Uno scrittore per molti, non uno scrittore per pochi. E sapeva di correre il rischio che la sua opera non venisse letta con lo stesso gusto dell’ intreccio che il lettore cerca in Stendhal e Balzac. D’ altro canto Proust aveva sempre creduto nel valore comunicativo dell’ opera d’ arte, nel suo dovere di emozionare e di avvincere. Poco più che ragazzo aveva scritto un articolo intitolato Contro l’ oscurità in cui attaccava quei circoli simbolisti che avevano rotto definitivamente con il pubblico, rifugiandosi in un esoterico esclusivismo da cui Proust stesso era tentato ma che in fondo disapprovava. Non stupisce allora che qualche anno dopo si sia ritrovato a sognare che la Recherche venisse divorata con la trascinante emozione con cui lui, a suo tempo, aveva letto Tolstoj. Ed ecco perché l’ idea di essere acquistato da qualcuno in una stazione ferroviaria doveva essere per lui così inebriante. Finalmente poteva avere ciò che aveva sempre sognato: il calore degli altri.
Il che conferma una mia vecchia idea: ciò che distingue la Recherche dagli altri celebrati capolavori modernisti è il desiderio del suo autore di insinuarsi nel cuore del lettore. È vero, il lettore di oggi (così come il lettore di allora) inizialmente incontra qualche difficoltà a entrare nella Recherche. Prova smarrimento addentrandosi nelle prime cento pagine: la sintassi intricata, il tono meditabondo, la difficoltà di trovare un punto di riferimento narrativo possono risultargli indigesti. Ma ecco dopo un po’ venirgli in soccorso la madre e il padre del Narratore; poi è la volta di Legrandin, di Swann, di Gilberte, di Charlus, di Odette, dei Guermantes, di tutti gli altri. Ormai il nostro lettore neofita è dentro. Lo stile non lo infastidisce più. Anzi, non può più farne a meno. È una droga. Ormai gli basta aprire una pagina a caso per sentirsi accalappiato. È vittima di un incantesimo, stregato dalla solenne melodia dello stile e dalla plastica vivacità dei personaggi.
E non crediate che tale sortilegio non sia stato preparato da Proust con cura e con una buona dose di spregiudicatezza. Per questo ha disseminato la Recherche di scene melodrammatiche ad uso del lettore sentimentale. E di casualità improbabili degne di un romanzo di appendice o di un fumetto. Guarda caso il Narratore è sempre nel posto giusto al momento giusto, pronto a spiare dal buco della serratura un personaggio intento in qualcosa di segreto e di risolutivo. E che dire, tanto per fare un altro esempio, dell’ ascesa sociale di Madame Verdurin? Be’ , a me non pare meno romanzesca di quella del Conte di Montecristo. È piuttosto inverosimile, infatti, che Madame Verdurin finisca con lo sposare il principe di Guermantes. È una trovata che non perdoneremmo a una fiction televisiva. Eppure risulta fondamentale nell’ economia dell’ opera. Se non altro perché sancisce l’ incontro definitivo tra la parte di Swann e quella di Guermantes: un matrimonio senza il quale la Recherche non avrebbe senso.
Persino nei passaggi apocalittici - quelli in cui il nichilismo proustiano tocca un apice di irredimibile cupezza - Proust fa di tutto per coinvolgere il lettore. Per non perderlo. Lo convoca come il testimone ad un processo. Se ne fa portavoce. Si guarda bene dall’ umiliarlo con la sua superiorità, anzi, lo ipnotizza con i bagliori della sua lucidità. Ci sono momenti miracolosi in cui la proverbiale distanza tra autore e lettore viene abolita. Istanti privilegiati in cui la comunione tra vita e letteratura si fa così densa da sfiorare la simbiosi. Ecco la sconvolgente esperienza estetica che la Recherche può regalarti.
E allora mi chiedo: come è potuto accadere che questo campione di generosità, il più umano e il più tenero dei romanzieri, il più comico e feroce dei moralisti, sia passato alla storia come lo snobissimo cantore di un mondo rarefatto esclusivo e in irreversibile disfacimento?
Bah, qualcosa mi dice che solo Proust avrebbe saputo spiegare un destino così proustianamente beffardo.
Alessandro Piperno