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 2010  dicembre 20 Lunedì calendario

SOGNO ASIATICO PER LA DOPPIA FIAT


Da lunedì 3 gennaio 2011, dopo 112 anni di storia unitaria, la Fiat si dividerà formalmente in due gruppi: Fiat Spa, che riunisce Fiat Group Automobiles, Ferrari, Maserati, Magneti Marelli e Teksid, e la Fiat Industrials, che vuol dire Iveco e Cnh. Quello stesso spezzatino che risultava non commestibile nei primi anni Duemila, quando avrebbero voluto cucinarlo Lehman Brothers e, prim’ancora, Roberto Colaninno, diventa prelibato adesso, con i cuochi giusti: gli Agnelli e il loro demiurgo, Sergio Marchionne. Le due Fiat si preparano all’esordio con la benedizione delle banche d’affari: entusiaste Goldman Sachs e Barclays, convinta Mediobanca, più prudenti Citi e Morgan Stanley, ma tutte con valutazioni, tra i 17 e i 23 euro per l’azione ordinaria, superiori alle quotazioni correnti, attorno ai 14 euro. Se si considera che prima dell’annuncio dello spezzatino, il titolo stazionava attorno ai 9-10 euro, ben si comprende il rinnovato entusiasmo dei soci per Marchionne. Le strade Le due Fiat avranno un futuro abbastanza diverso. L’Industrials ha i conti abbastanza in ordine: Mediobanca Securities la vede in utile per circa 200 milioni quest’anno, con imposte alte e debiti per 15 miliardi. Nel prosieguo, gli obiettivi semplici saranno dunque due: ridurre l’incidenza fiscale dal 50 a un più maneggevole 35%; tagliare un po’il debito in assoluto e molto in relazione a un giro d’affari in graduale crescita, un obiettivo a portata di mano data la relativa modestia degli investimenti attesi, il cui picco, nel 2014, non supererà il 5%dei ricavi. Su questa ordinaria amministrazione si potranno innescare nuove iniziative: l’Iveco, già forte in Cina, potrà tentare lo sbarco negli Usa per cogliere il vento della ripresa. La Cnh potrebbe riarticolare macchine agricole e macchine movimento terra con fusioni e acquisizioni o anche solo quotando in Borsa le seconde. E non dimentichiamo che Fiat Industrials resta una holding e come tale può anche lavorare sui pacchetti azionari delle sue controllate. La Fiat Spa residua, invece, ha davanti a sé una prospettiva più eccitante e rischiosa, che si chiama Chrysler. Il 2011 sarà l’anno del ritorno della terza grande di Detroit a Wall Street. A essere precisi, l’aggettivo sostantivato grande non ha più molto senso: la Chrysler oggi vende un milione e mezzo di vetture, la metà di cinque anni fa, e non gode di una gran reputazione tecnico stilistica. Ma la sua storia è ricca di alti e di bassi. Cade, si rialza, ricade, si alza di nuovo. Già nel 1990, quando venne offerta alla Fiat di Cesare Romiti con l’operazione Tiger Regal, l’aveva risollevata il Tesoro americano. Nel 2008-2009 la mano pubblica ha messo a disposizione ben 12,5 miliardi di dollari: 5,9 per la liquidazione della vecchia Chrysler in bancarotta e 6,6 per finanziare la nuova Chrysler targata Marchionne. Uno sforzo enorme, destinato a concludersi, al netto di rimborsi e incassi, con una perdita di 2-3 miliardi. Da questo sforzo, i sindacati traggono il vantaggio di salvare una parte dei posti di lavoro. Ma i dipendenti a loro volta contribuiscono all’impresa congelando i crediti sanitari in azioni Chrysler, rinunciando per 5 anni al diritto di sciopero, e accettando forti decurtazioni della paga oraria, specie per i neoassunti. In prospettiva potranno tanto più recuperare quanto più salirà la quotazione delle azioni Chrysler. L’apprezzamento è già in corso, al momento sul piano teorico. Secondo Mediobanca, il valore di mercato del capitale sociale di Chrysler sarebbe pari a 10,9 miliardi di euro: più o meno quanto la somma di Fiat Auto, Ferrari, Maserati e Fiat Powertrain. Marchionne può arrivare al 35%della Chrysler, di cui ha già il 20%, senza pagare in forma monetaria ma, sostanzialmente, attraverso la cessione di tecnologia. Il 35%di Chrysler vale oggi 3,5 miliardi di euro. Nel breve Chrysler sembra un affare. Ma nel lungo periodo? Quale effetto avrà la cessione di tecnologia negli equilibri tra attività italiane e attività americane? Prudenza La storia di questa car company consiglia prudenza. La Daimler, che l’aveva assorbita negli Novanta, l’ha poi ceduta perdendoci l’imperdibile. Ma per Mediobanca Securities questa volta andrà diversamente. Le ragioni di ottimismo sono tre: a) l’ 82%del mercato americano è fatto di 6 grandi, l’ 81%di quello europeo da 8 gruppi, dunque è meno competitivo; b) in America la capacità produttiva e le reti commerciali sono state drasticamente tagliate (a spese del governo: con meno capitale fisso da remunerare, si può produrre meno e vendere più caro; c) il taglio dei salari vale almeno 500 milioni di dollari l’anno. Durerà? Nessuno può dirlo davvero. Ma una contraddizione emerge chiara: i 6 milioni di pezzi, indicati come necessari per competere sui mercati globali, restano una chimera; la somma di Fiat e Chrysler fatica ad arrivare ai 4 milioni di vetture. Investire in capacità produttiva nuova e non sostituiva in mercati saturi come gli Usa e l’Europa può essere un rischio mortale. Specialmente se non si è bravi come tedeschi a fare le belle macchine da vendere ad alto prezzo anche in Cina. Certo, il Brasile è ottimo, ma da solo non basta. E forse per questo la stessa Mediobanca Securities prospetta una nuova stagione di fusioni o acquisizioni in direzione dell’Asia, magari preceduta, giusto per fare cassa, dalla cessione di qualche asset poco sfruttato come il marchio Alfa Romeo, stimato 1-1,5 miliardi di euro.