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 2010  dicembre 21 Martedì calendario

Gli espropri e gli altri provvedimenti contro la Chiesa del Regno di Sardegna e dell’Italia unita

Sono note come leggi Siccardi le leggi n. 1013 del 9 aprile 1850 e n. 1037 del 5 giugno 1850 dell’allora Regno di Sardegna, che abolirono i privilegi goduti fino ad allora dal clero cattolico. Furono seguite dalla cosiddetta legge Rattazzi n. 878 del 29 maggio 1855 e dalle leggi eversive n. 3036 del 7 luglio 1866 e n. 3848 del 15 agosto 1867. Il quadro storico [modifica] In seguito all’appoggio di Vittorio Emanuele II, il governo D’Azeglio attuò un programma di riforme degli istituti giuridici del Regno di Sardegna, concretizzando le innovazioni del 1848. In questo contesto storico il guardasigilli Giuseppe Siccardi propose le Leggi Siccardi, subito approvate a gran maggioranza dalla Camera, nonostante le resistenze dei conservatori più legati alla Chiesa cattolica. Resistenze dovute soprattutto all’abolizione di tre grandi privilegi che il clero godeva nel Regno. Tali privilegi erano il foro ecclesiastico, un tribunale che sottraeva alla giustizia laica gli uomini di Chiesa giudicati da un tribunale separato, il diritto di asilo, ovvero l’impunità giuridica di coloro che chiedevano rifugio nelle chiese, e la manomorta, l’inalienabilità dei possedimenti ecclesiastici. Le Leggi Siccardi segnarono l’inizio di un lungo attrito tra il regno sabaudo ed il Papato, attrito che si consolidò nel 1852 con il progetto di istituire il matrimonio civile e, successivamente, con la Crisi Calabiana. I provvedimenti [modifica] A partire dal 1850, furono promulgate le leggi Siccardi (n. 1013 del 9 aprile 1850, n. 1037 del 5 giugno 1850), che abolirono tre grandi privilegi di stampo feudale di cui il clero godeva nel Regno di Sardegna: il foro ecclesiastico, un tribunale che sottraeva alla giustizia dello Stato gli uomini di Chiesa oltre che per le cause civili anche per i reati comuni (compresi quelli di sangue), il diritto di asilo, ovvero l’impunità giuridica di chi si fosse macchiato di qualsiasi delitto e fosse poi andato a chiedere rifugio nelle chiese, nei conventi e nei monasteri, e la manomorta, ovvero la non assoggettabilità a tassazione delle proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici (stante la loro inalienabilità, e quindi l’esenzione da qualsiasi imposta sui trasferimenti di proprietà). Inoltre, tali provvedimenti normativi disposero il divieto per gli enti morali (e quindi anche per la chiesa e gli enti ecclesiastici) di acquisire la proprietà di beni immobili senza l’autorizzazione governativa. Nonostante l’opposizione di principio della Santa Sede, fu accettata da una parte del mondo cattolico (i cosiddetti cattolici liberali). I cattolici intransigenti promossero invece una strenua resistenza a queste leggi, che continuò anche a seguito della loro promulgazione e sfociò con l’arresto dell’arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, che venne processato e condannato ad un mese di carcere dopo aver invitato il clero a disobbedire a tali provvedimenti. Negli anni seguenti il governo, anche per l’avvicinamento di Cavour alla sinistra anticlericale, inasprì il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa. Fu del 29 maggio 1855 la cosiddetta legge Rattazzi che abolì tutti gli ordini religiosi (tra i quali agostiniani, carmelitani, certosini, cistercensi, cappuccini, domenicani, benedettini) privi di utilità sociale, ovvero che «non attendessero alla predicazione, all’educazione, o all’assistenza degli infermi», e ne espropriò tutti i conventi (334 case), sfrattando 3733 uomini e 1756 donne. I beni di questi ordini soppressi furono conferiti alla Cassa ecclesiastica, una persona giuridica distinta ed autonoma dallo Stato. L’iter di approvazione della legge, proposta dal primo ministro Cavour, fu contrastato da re Vittorio Emanuele II e da un’opposizione parlamentare agitata dal senatore Luigi Nazari di Calabiana, vescovo di Casale Monferrato, che determinarono le temporanee dimissioni dello stesso Cavour. Con l’avvento del Regno d’Italia avvenuto nel 1861, il Governo adottò nei confronti della Chiesa (che contrastava l’affermarsi di "compiti di benessere" dello Stato a favore dei cittadini) una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive: * la Legge n. 3036 del 7 luglio 1866 con cui fu negato il riconoscimento (e di conseguenza la capacità patrimoniale) a tutti gli ordini, le corporazioni, e le congregazioni religiose regolari, ai conservatori ed i ritiri che comportassero vita in comune ed avessero carattere ecclesiastico. I beni di proprietà di tali enti soppressi furono incamerati dal demanio statale, e contemporaneamente venne sancito l’obbligo di iscrizione nel libro del debito pubblico di una rendita del 5% a favore del fondo per il culto (in sostituzione della precedente cassa ecclesiastica del Regno di Sardegna). Venne inoltre sancita l’incapacità per ogni ente morale ecclesiastico di possedere immobili, fatte salve le parrocchie. * La Legge n. 3848 del 15 agosto 1867 previde la soppressione di tutti gli enti secolari ritenuti superflui dallo Stato per la vita religiosa del Paese. Da tale provvedimento restarono esclusi seminari, cattedrali, parrocchie, canonicati, fabbricerie e gli ordinariati. Nel tentativo di colmare i gravi disavanzi causati dalla terza guerra d’indipendenza, nel 1866 il primo ministro Giovanni Lanza estese l’esproprio dei beni ecclesiastici a tutto il territorio nazionale e, con la legge del 19 giugno 1873 anche a Roma, la nuova capitale. Queste leggi produssero un incremento vertiginoso della secolarizzazione: le stime dicono che il numero dei religiosi, negli anni tra il 1861 e il 1871, scese da 30632 a 9163 unità.[senza fonte] Categorie: Leggi dello stato italiano | Risorgimento italiano | Leggi anticlericali | Storia dei rapporti fra Stato italiano e Chiesa cattolica | [altre]