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 2010  dicembre 18 Sabato calendario

IL CARROCCIO TRA LE COLLINE DI LEOPARDI

Il fagiolo di Obelix non strappa più sorrisi, alla sinistra marchigiana. Ricordate? Era il 1996, la Lega Nord tra matrimoni celtici e ampolle d’acqua sacra puntava alla secessione e i «lumbard» si dividevano su quali fossero i confini della Padania. Il Senatur teorizzava che «i confini corrispondono più o meno alla zona in cui esisteva l’area celtica, diciamo da Senigallia a Lucca» . Mimmo Pagliarini, nel dossier economico, divideva l’Italia in tre pezzi lasciando Toscana e Marche all’ «Etruria-Romandia» . Mario Borghezio precisava che lui avrebbe tirato dentro solo la Toscana, «culla della civiltà comunale» . E Roberto Calderoli, forte di una laurea da dentista, consigliava di fermarsi a Pesaro: «So che quando la cancrena avanza occorre amputare alto» . La perla del dibattito però fu appunto il borlotto di Erminio «Obelix» Boso. Che sentenziò: «Mi pare che Bossi e Borghezio allarghino troppo i confini. Io ho applicato il metodo del fagiolo. Ho fatto così: ho preso un fagiolo borlotto e l’ho messo sulla carta geografica: arrivava fino ai confini dell’Emilia» . Tre lustri dopo non lo direbbe più. Primo: perché i leghisti riminesi gli taglierebbero la gola se dimenticasse di nuovo la Romagna, per la quale sognano, facendo il verso al liquore, la «Grande Romagna etichetta verde» . Secondo: perché la Lega ha da tempo passato il Rubicone insediandosi nelle Marche con percentuali sempre più consistenti. Anzi, un pezzo di Marche se l’è addirittura portato via. Senza che gran parte dell’Italia se ne accorgesse, infatti, sette comuni della Valmarecchia, cioè la valle percorsa dal fiume Marecchia che sfocia a Rimini, hanno piantato in asso la regione leopardiana per traslocare sotto la sovranità (per il momento) bolognese. Un percorso interminabile, ha ricostruito Paolo Stefanini nel libro Avanti Po dedicato alla penetrazione leghista nelle regioni rosse. Prima un referendum consultivo a metà dicembre del 2006, segnato da una massiccia partecipazione (il 67,5%: tanti per consultazioni del genere) e una schiacciante maggioranza di favorevoli al divorzio da Ancona: l’ 84%dei votanti. Poi il parere obbligatorio, sia pure non vincolante, delle Marche (contrarie) e dell’Emilia Romagna, favorevole. Poi una legge costituzionale con doppio passaggio parlamentare. Poi la Gazzetta Ufficiale. E infine l’ultima battaglia davanti alla Corte Costituzionale alla quale le autorità marchigiane, guidate dal governatore Gian Mario Spacca, avevano chiesto di annullare tutto. Per non dire delle grane successive, il calvario di mappe, fogli catastali, targhe automobilistiche, patenti e carte d’identità da cambiare e insomma tutte le tribolazioni burocratiche che potete immaginare. Vi chiederete: passi per la voglia di Lamon e altri comuni veneti che vorrebbero traslocare nel ricco Trentino, ma che senso c’è a desiderare tanto il trasloco da una provincia rossa (Pesaro Urbino) a un’altra rossa (Rimini) e da una regione rossa a un’altra regione rossa senza che ci siano di mezzo i soldi delle autonomie locali? «Qui la gente si sente romagnola, per accento, per cucina… Ma soprattutto per le strade. È per la viabilità che le Marche, e la sinistra, ci hanno perso» , ha spiegato a Stefanini il presidente di «Insieme per la Valmarecchia» Nicola Parato. «Da qui ci vogliono tre ore e mezzo per arrivare a Pesaro, facendo le vie interne. Oppure bisogna attraversare tre province, scendendo prima verso Cesena. O uno Stato straniero extracomunitario, San Marino. In quaranta minuti invece siamo a Rimini! Questa zona gravita naturalmente verso la costa riminese. Per i giovani lì c’è il divertimento. Per i malati, ci sono gli ospedali più vicini. Le Marche ci hanno sempre trascurati, ci consideravano "marginali"» . Fatto sta che soffiando sulla voglia di ricongiungersi all’ «heimat» riminese il Carroccio ha conquistato spazio in tutti i 7 comuni del Montefeltro settentrionale: 17,5%alle Europee 2009 a Casteldelci, 13%a Maiolo, 8,8%a Novafeltria, 10%a San Leo, 16,2%a Sant’Agata Feltria, 16,6%a Talamello, 13,36%a Pennabilli. Il paese d’adozione di Tonino Guerra, il poeta e sceneggiatore amico di Antonioni, Monicelli, Fellini. Gli stessi bossiani adorano il vecchio Tonino, cantore della Marecchia: «Èulta e’ mi fiómm, u i è tótt un mònd, ch’l’è fat ad cani, da fraschi, e bagarózz chi dórma te su bòzal, chi sòuna se ta i scróll, mo sa girài?» . Lungo il mio fiume si muove un mondo di canne, di frasche, di bacherozzi che dormono nel bozzolo e suonano se li sbatti, chissà cosa diranno? Mosso dall’entusiasmo, racconta Avanti Po, il compaesano Mauro Giannini gli ha lanciato un appello: «Forza maestro, indossa un foulard verde al posto di quello rosso e vincerai il Leone d’oro alla carriera! È un tuo diritto, caro maestro, entrare in Venezia trionfante. La Lega Nord ti sosterrà e tornerai sicuramente vincitore nella tua verde Valle!» . Lui, che si definisce ironicamente un «comunista zen» , ha risposto ammonendo in un’intervista il Pd: «Prodigatevi maggiormente per i comuni della Valmarecchia, o di questo passo, prima o poi, qui comanderà solo la Lega Nord» . La quale, fatta eccezione per Novafeltria, ha fatto irruzione in tutte le giunte della valle. Spesso con il centrodestra, talvolta, come a Sant’Agata Feltria, addirittura col centrosinistra. Se il partito di Bossi si è incuneato in Valmarecchia grazie ai richiami romagnoli, per infiltrarsi nelle Marche, saldamente «rossa» dal 1993, punta su un altro tema forte. L’immigrazione. Sulla quale si registrano svolte altrove impensabili. Basti leggere quanto scrive sul suo sito Web il primo leghista eletto al consiglio provinciale di Macerata, Enzo Marangoni. A Berghem conta la difesa del dialetto bergamasco, a Venessia del veneziano, a Udin del friulano? Qui no: «I nostri figli devono frequentare scuole nelle quali la lingua italiana sia la sola lingua parlata e scritta da tutti…» . Quanto al lavoro: «Noi diciamo chiaramente che bisogna dare la priorità ai nostri. Sennò a che serve essere italiani?» . Pare quasi di risentire, nell’accorata difesa della patria tricolore a Pontida invisa, le parole del figlio più grande di Recanati, Giacomo Leopardi, nel suo canto d’amore all’Italia ferita: «Sì che sparte le chiome e senza velo /Siede in terra negletta e sconsolata, /Nascondendo la faccia /Tra le ginocchia, e piange. /Piangi, che ben hai donde /Italia mia…» L’ex frazionemarina del paese natale del poeta, del resto, è diventato il primo comune della penisola per extracomunitari. Su 12.600 abitanti, ufficialmente, gli immigrati regolari registrati all’anagrafe sono il 21,87%, di 71 etnie diverse. E a questi vanno aggiunti gli irregolari. In larga parte concentrati nel ghetto dell’Hotel House, un mostro di 16 piani di cemento con la pianta a croce tirato su negli Anni 60 per il turismo di massa squattrinato e oggi ridotto, scrostati i muri, sgangherate le tapparelle, malmessi i pavimenti, a ospitare ufficialmente 1.323 inquilini (più un migliaio di irregolari) di 43 etnie differenti. Compresi gli ultimi 90 italiani. Siccome non pagavano l’acqua, gliel’hanno tagliata per qualche ora al giorno proponendo un pagamento rateale. Niente da fare. Peggio, si sono scavati un pozzo artesiano per servirsi di quello. A quel punto, l’acqua gliel’hanno tagliata del tutto. La giunta comunale, di centrodestra, non nasconde le difficoltà. Adesso, vinta la causa giudiziaria, dovrebbe andare a tappare il pozzo illegale. Mica facile. Ci sono centinaia di bambini, là dentro. E per di più la cosa richiederà un sacco di agenti di polizia, carabinieri, vigili urbani che già hanno difficoltà a mettere un freno a tutte le attività illegali. Spaccio di droga compreso… Mette angoscia, l’Hotel House. A chi ci vive dentro prima ancora che agli altri abitanti di Porto Recanati. È l’immagine dello stesso errore storico visto a Padova in via Anelli, nella Chinatown di Prato o in certi quartieri di Torino. Eppure, una trentina di chilometri più a nord, la bella e civile Ancona resiste alle tentazioni razziste. Fedele all’immagine che, mezzo secolo fa, le cucì addosso in «Italia sotto inchiesta» Piero Ottone: «Non sembra un porto di mare, tanto è ordinata, decorosa, provincialmente per bene» . Anzi, dipendesse solo dagli anconetani, convinti che per essere dei «buoni cittadini» occorre innanzitutto essere «cittadini» , gli extracomunitari voterebbero da un pezzo. Due volte ci hanno provato, gli amministratori locali di centrosinistra, a concedere agli immigrati regolari la possibilità di votare alle Amministrative. E per due volte il governo Berlusconi gli ha bocciato le delibere. Sono sedicimila, gli stranieri. Su poco più di centomila abitanti. Oltre il doppio della percentuale media nazionale. La zona del porto, dove il traffico di container è un trentesimo di quello di Gioia Tauro e quello di merci è calato quest’anno del 7%, è una Babele dove convivono 93 etnie diverse. Qualche rissa ogni tanto. Raramente, un morto. La rotta Patrasso — Ancona è ormai il canale d’accesso preferito per i clandestini che arrivano stivati nei doppi fondi dei Tir provenienti via nave dalla Turchia. Ma nonostante l’impegno dei neofascisti di Forza Nuova, che si son piazzati in mezzo al quartiere più multietnico con slogan del tipo «la loro integrazione, la nostra distruzione» , il razzismo non ha ancora attecchito. Sarà perché Ancona è stata per quattro secoli, fino al 1532, una libera repubblica marinara, aperta e cosmopolita. Protesa verso l’altra sponda dell’Adriatico dov’era Ragusa, alleata in concorrenza con la Serenissima. O forse tutto è cominciato davvero con la pietas mostrata dopo la battaglia di Castelfidardo. I piemontesi, vinto lo scontro, seppellirono i morti in fosse separate: di qua i savoiardi, tutti italiani e di là i papalini, tutti stranieri, austriaci, francesi, svizzeri, zuavi… Esattamente un anno dopo, il 18 settembre 1861, i marchigiani decisero di costruire un grande Sacrario dove ospitare le spoglie dei caduti. Tutti insieme. Senza distinzione di nazionalità, lingua, divisa. Si racconta che due anni più tardi un reduce austriaco di quella battaglia tornò a ringraziare la Madonna di Loreto per averla scampata bella. E trovò alloggio presso la famiglia del contadino Antonio Soprani, in una cascina nei pressi di Castelfidardo. Aveva con sé uno strano strumento musicale, simile a quell’ «accordion» brevettato nel 1829 a Vienna da un certo Cyril Demian. Il figlio del contadino ne rimase affascinato. E riconoscente per l’ospitalità, narra una delle molteplici versioni di questa storia, il pellegrino austriaco glielo regalò. Ignaro delle conseguenze che avrebbe avuto il suo gesto. Passato un anno, l’intraprendente Paolo Soprani cominciò a produrne in serie. Era nata l’industria della fisarmonica. Una delle tante che avrebbe cambiato faccia alla regione. E che al tramonto degli anni d’oro degli strumenti musicali si sarebbe proiettata nel futuro con i circuiti stampati. Quando passò Piero Ottone, scrisse: «Le Marche possono essere considerate una regione semidepressa. La posizione geografica non le favorisce: a ridosso degli Appennini, sembrano appartate dal resto dell’Italia, ed è facile dimenticarle» . Regione stupenda, «i cui uomini ricamarono la terra attraverso i secoli, la cesellarono, ne fecero un’opera d’arte» . Colline che ancora richiamano alla memoria versi leopardiani: «Dolce e chiara è la notte e senza vento /e queta sopra i tetti e in mezzo agli orti /posa la luna, e di lontan rivela /serena ogni montagna....» Terra di contadini gentili come i colli: «La regione è rimasta essenzialmente agricola, con il 42%della popolazione attiva dedita al lavoro dei campi, mentre sul piano nazionale gli addetti all’agricoltura sono scesi al 27%» . Poteva dare una mano, nella svolta, il marchigiano Enrico Mattei, che «a capo dell’impero dell’Eni poteva prendere decisioni con l’autorità di un sovrano» . Non lo fece: «Se fondassi qualche industria nella mia regione mi accuserebbero di favoritismo» . Né i marchigiani se ne lagnarono più di tanto. Non sono tipi da lamento. Lo stesso Ottone ricorda che quando venne in visita «Mussolini dichiarò giubilante in piazza del Plebiscito che i marchigiani, cara gente, davano molto e non chiedevano nulla» . Meglio così. Perché i capannoni di questa «Terza Italia» sdraiati nelle valli appenniniche, pur avendo portato benessere e lavoro con i distretti del mobile pesarese o quello degli elettrodomestici intorno al gruppo dei Merloni a Fabriano, per citare soltanto due casi di una realtà effervescente sia pure ammaccata dalla crisi, hanno sicuramente sfregiato l’ambiente meno di quanto altre fabbriche abbiano devastato altri territori d’Italia. E’ poi un caso se la «Elica» di Francesco Casoli, leader europea nella produzione di cappe per cucina, schizza come è successo giorni fa in testa alla classifica «Best Workplaces 2011» come «l’azienda in cui si lavora meglio» in Italia? Anche a Tolentino si fa industria. La cittadina è il cuore del polo della lavorazione delle pelli. Scarpe, accessori, suppellettili. Con nomi come quello di Nazareno Gabrielli, di Diego Della Valle della Tod’s o ancora del suo amico e socio Luca Cordero di Montezemolo, principale azionista di Poltrona Frau. Eppure i macchinari non hanno spazzato via la memoria, gli stabilimenti non hanno spazzato via la storia. Che qui visse un passaggio centrale. Quando ai primi di maggio del 1815 l’esercito di Gioacchino Murat fu sconfitto dagli austriaci nella battaglia che restituì ai Borbone il Regno di Napoli. Evento che gli storici considerano come il primo atto bellico riconducibile al Risorgimento italiano. Oddio, per tornare alla battuta di Mussolini sul marchigiani che non chiedono mai, qualcuno che ha chiesto c’è stato. E parecchio. Il mitico Edoardo Longarini, il costruttore che per i modi spicci veniva chiamato «Al Cafone» . Erano i tempi in cui le Marche erano sotto la vellutata influenza («dominio» sarebbe troppo) di Arnaldo Forlani. Il quale teorizzava l’arte della politica in parallelo all’arte del brodetto di pesce e, scrisse Massimo Franco, sosteneva che «la gastronomia ittica conferma la virtù dell’armonia tra gli opposti universalmente riconosciuta al genio marchigiano: né violenza né languore, né sovraccarico di spezie né insipidezza. Medialità, centralità» . Trent’anni prima della «Protezione civile S. p. A.» , della traduzione in appalti della cultura dell’emergenza, del commissariamento di ogni opera, Longarini riuscì ad avere una concessione a fare tutti i lavori del «piano di ricostruzione postbellica» riciclato in un piano di ricostruzione postterremoto del 1972. Ottenendo dallo Stato, grazie alla Dc con la quale era generoso, condizioni pazzesche. Come il riconoscimento di un anno lavorativo di soli 180 giorni (tre e mezzo la settimana) col risultato che gli diedero 29 anni di tempo per fare una strada di 4 chilometri. O il pagamento di prezzi fino al 477%superiori a quelli dell’Anas. Tutte cose che gli procurarono una serie di condanne giudiziarie che, di rinvio in rinvio, di ricorso in ricorso, son finite in prescrizione. Col risultato che proprio in questi mesi ha patteggiato di restituire allo Stato 18 milioni di euro pretesi dalla Corte dei Conti. Soldi che contemporaneamente lo Stato gli restituisce ((25 milioni l’anno!) perché essendo evaporate in prescrizione le condanne… Il bello è che il Parlamento aveva approvato una legge per stabilire una volta per tutte che lo Stato al concessionario non doveva nulla di nulla. Ma nel processo finale, «curiosamente» , l’avvocatura dello Stato non l’ha mai invocata. Anzi, tra le leggi da cancellare per «sveltire» la macchina statale Roberto Calderoli ha infilato pure quella. Complimenti. «Al Cafone» ha accolto gli ultimi sviluppi con entusiasmo. E si è fatto avanti per comprare la Roma…
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella