DOMENICO QUIRICO, La Stampa 18/12/2010, pagina 19, 18 dicembre 2010
Seicentomila frustate alle donne del Sudan - Qualcosa, per fortuna, sfugge sempre alle dittature, ai satrapismi, agli innumerevoli zeloti del fanatismo: un video, per esempio
Seicentomila frustate alle donne del Sudan - Qualcosa, per fortuna, sfugge sempre alle dittature, ai satrapismi, agli innumerevoli zeloti del fanatismo: un video, per esempio. Il regime di Karthoum pratica con metodo tutte le ferocie della sharia, ma si vergogna di mostrarle. Sa che questa «santità» giudiziaria può nuocergli. Condanna ad esempio le donne vestite in modo «indecente» ad essere frustate, poi accortamente esclude testimoni scomodi dall’assistere alla esecuzione della sentenza. Questa volta i suoi manovali sono stati troppo zelanti, hanno dimenticato, nella soddisfazione di punire la colpevole, che qualcuno li filmava. Così ora il video gira su Youtube e ricorda a un mondo distratto che c’è un Paese dove le sentenze si misurano a colpi di frusta e si flagellano le donne che indossano i pantaloni o la minigonna. Tutti lo sanno, da anni, perché il Sudan non nega certo la ferocia del suo codice penale, anzi ne trae vanto. Ma sono le immagini, come sempre, che fanno lievitare l’orrore e l’indignazione. Nel video si vede una donna in ginocchio che grida piange e si dibatte. Due individui, vestiti con le uniformi della polizia sudanese, la flagellano dalla testa ai piedi, con metodo violenza piacere; poiché ridono sgangheratamente. Come ridono anche gli spettatori, numerosi, invitati con puntiglio didattico ad assistere alla esecuzione della sentenza. Inutile sperare che Karthoum si penta. È un regime specializzato nel genocidio dei suoi cittadini del sud e del Darfour, diretto da un dittatore, Omar el Bechir, che sbeffeggia con successo la comunità internazionale e il tribunale per i diritti umani che invano cerca di arrestarlo e processarlo per i massacri in Darfour. Lo proteggono gli amici e alleati cinesi e gli altri dittatori africani, per i quali chiedere il rispetto dei diritti dell’uomo è ingerenza e neocolonialismo. Il governatore dello Stato di Karthoum e notabile del partito al potere ha vigoreggiato: «Questa donna è stata condannata in virtù della sharia, la legge islamica. C’è stato semplicemente un errore nel modo in cui la pena è stata inflitta». Unica concessione: l’annuncio che è stata aperta un’inchiesta. Probabilmente per scoprire chi ha potuto filmare la punizione: «Ma non permetteremo a nessuno di sfruttare questa vicenda a fini politici». Difficile che l’indignazione del mondo non impallidisca rapidamente: perché il petrolio sudanese fa gola a tutti, e la comunità internazionale ha bisogno della benevolenza di Bechir alla vigila del referendum sull’indipendenza del Sud del Paese, animista e cristiano. Nessuno vuole trovarsi davanti a una nuova tragedia africana: perché dovrebbe inviare truppe e spendere denaro. Di fronte a prospettive così scoraggianti le frustate sono un fastidioso dettaglio. Meritano l’ammirazione universale i 52 indomiti, i 46 dei quali erano donne, che hanno manifestato nella capitale davanti al Ministero della Giustizia contro la fustigazione e che sono stati immediatamente arrestati per corteo illegale e turbamento dell’ordine pubblico. Eroici: ma erano soltanto 52. Troppo pochi per sperare nel sostegno di una opinione pubblica interna. Non basterà nemmeno il coraggio di Mariam Sadiq alMahdi, femminista e componente del partito di opposizione, che ha denunciato l’entità numerica della pena delle frustate previste dal codice del 1991, articolo 152. Secondo le sue stime sarebbero addirittura quarantamila le donne che hanno subito questa barbarie in un anno, una cifra al limite dell’incredibile. Si è spinta fino a fissare in seicentomila le frustate inflitte alle sventurate. L’oblio è il destino della battaglia condotta da una giornalista sudanese, Lubna, che nel 2009 polemicamente chiese l’esecuzione della sentenza, punita per aver indossato in pubblico i pantaloni. Per il fracasso sollevato dal caso la sentenza fu revocata ma oggi lei vive, esule, in Francia. In fondo sconfitta. Un mese dopo quella vicenda Silva Kashif, una adolescente di sedici anni, passeggiava con una gonna che si fermava al ginocchio in un quartiere del sud della capitale. È stata arrestata, giudicata e flagellata, 50 colpi, nel giro di un ora. Anche se era minorenne e cristiana, e quindi non coinvolta da una norma che riguarda le musulmane. I pericoli per la ghenga dispotica che regge il Paese vengono forse da altri problemi, ad esempio i prezzi e l’inflazione. Il più grande Paese dell’Africa è costretto a importare due terzi del consumo annuale di grano per i suoi quaranta milioni di abitanti. Il prezzo del pane dall’inizio di dicembre è aumentato, ci vogliono venti centesimi per la tradizionale focaccina, 5 centesimi di euro. L’inflazione ha colpito anche lo zucchero che pure è di produzione largamente locale. All’inizio del Ramadam un sacco da 50 chili costava 105 sterline locali, oggi è salito a 160 (40 euro). Anche i venditori di tè nelle strade della capitale, una delle più tenaci abitudini sudanesi, hanno quasi raddoppiato il prezzo della loro bevanda zuccherata.