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 2010  dicembre 18 Sabato calendario

I GATTOPARDI DEL BONUS A WALL STREET


Nella New York pre-natalizia, addobbata a festa con le luci abbaglianti, le piste da pattinaggio e l’albero di Natale al Rockefeller Centre, ci sono poche oasi di pace. Una passeggiata sulla Quinta strada si trasforma subito in uno slalom affannato tra le nazioni unite del turismo – italiani e spagnoli, ovviamente, ma anche cinesi, russi, indiani e brasiliani – e residenti esasperati dal passo lento dei vacanzieri in cerca di saldi. Per trovare un po’ di calma, bisogna allontanarsi dal caos di Gap, Abercrombie & Fitch e persino Tiffany, gioielleria storica ormai alla portata di molti, e dirigersi verso la più austera Park Avenue.

E’ qui, tra i grattacieli delle banche, i ristoranti storici come il Four Seasons, (dove una bistecchina costa 48 dollari), e la sensazione palpabile che l’isola di Manhattan galleggi su un fiume di denaro, che Wall Street viene a fare shopping. A Park Avenue, gli executives in cerca di regali per mogli e amanti devono suonare il campanello prima di entrare dai gioiellieri – non siamo mica da Tiffany qua - quando vedono un dipinto di Mirò in una galleria d’arte non chiedono mai se è originale, e se hanno bisogno di un’auto, la scelta è tra Maserati e Ferrari.
Queste settimane prima di Natale sono di solito caldissime per i venditori di beni di lusso a New York perché banchieri e operatori di Borsa incominciano a spendere i principeschi bonus di fine anno. L’altro giorno, grazie ad un amico banchiere che mi ha dato appuntamento a Park Avenue anziché in ufficio, sono riuscito ad infiltrarmi in questo «material world» di cui cantava Madonna e scriveva Tom Wolfe nel «Falò delle Vanità». Mentre ci spostavamo da negozio a negozio – io chiedendo i prezzi e tentando di mascherare la mia sorpresa, lui comprando oggetti unici come fossero figurine Panini – ho avuto l’impressione netta che i grandi spendaccioni di Wall Street quest’anno siano meno scatenati del solito. Non erano solo gli sguardi di gran sollievo delle signorine dietro il bancone quando il mio amico tirava fuori l’American Express ma anche l’aria meno spavalda di altri avventori ben vestiti.

Un piccolo sondaggio di commercianti d’alto bordo (se avete bisogno di affittare uno yacht nei Caraibi, ho tutti i numeri che contano) ha confermato l’impressione iniziale. Dopo un anno così-così, l’industria finanziaria attingerà da una cornucopia di denaro più piccola del solito. Nel 2009, Wall Street sorprese un po’ tutti – e fece arrabbiare Washington – con la decisione di ripristinare bonus astronomici un anno dopo una crisi epica che aveva fatto perdere il posto di lavoro a milioni di americani. Quella mossa all’epoca fu giustificata dal fatto che gli utili delle varie Goldman Sachs, JPMorgan e Merrill Lynch erano aumentati e che i banchieri dovevano essere remunerati almeno quanto gli investitori (assente da quella spiegazione era il fatto che la crescita degli utili era dovuta in gran parte ai bassissimi tassi d’interesse, non al genio delle banche).

Quest’anno però, gli utili sono in calo, la ripresa economica rimane anemica e un americano su dieci è disoccupato. Che fare con i bonus? La domanda ha due risposte: quello che Wall Street farà e quello che dirà di aver fatto. Incominciano dalla seconda. Le banche diranno, anzi, stanno già dicendo, all’opinione pubblica e ai politici che i bonus quest’anno crolleranno del 20-30 per cento. E’ una cifra eclatante che dovrebbe dimostrare che, dopo gli eccessi del passato, Wall Street ha finalmente imparato la lezione: non di solo bonus vive il banchiere. La storia dei «tagli» alle buste paga fa buon gioco alle banche, soprattutto in un momento in cui il Congresso e le authority di settore stanno riscrivendo le regole del gioco della finanza. Se, come disse il presidente Obama, la Casa Bianca è l’ultimo bastione tra i banchieri e il linciaggio, rimpicciolire i bonus di un terzo dovrebbe placare le masse e ridimensionare un pochino i signori del capitalismo.

Io, però, aspetterei un attimo prima di mandare la Caritas a Park Avenue. E’ vero che, in media, i bonus caleranno dai livelli altissimi del 2009 ma la parola chiave qui è «in media». Senza andare a disturbare Trilussa e i suoi mezzi polli, va detto che nessuno a Wall Street guarda alla media-bonus. Quello che conta sono i pagamenti individuali ed è qui che, come si dice in inglese, il «diavolo è nei dettagli». Dire che i bonus calano del 30 per cento in un anno in cui gli utili saranno anch’essi giù del 30 per cento più o meno, non dimostra assolutamente che Wall Street, sta «sconfiggendo la cultura dell’eccesso» come mi ha detto un banchiere l’altro giorno.

La vera cifra da controllare è la percentuale dei ricavi che viene pagata in stipendi e bonus. Per decenni, quel numero è stato fisso intorno al 50 per cento, ovvero, i banchieri e gli operatori si sono presi metà di tutto quello che le loro aziende hanno guadagnato durante l’anno. Se, come credo, quella percentuale rimane la stessa – e la sola cosa che cala sono le cifre assolute perché le banche hanno fatto meno soldi nel 2010 – la famosa «riforma» di Wall Street sarà ridotta ad una magia finanziaria. L’altro modo in cui le banche possono ridurre il costo totale dei bonus pur pagando benissimo le loro «star» è di dividere la torta tra meno persone. Le tendenze darwiniane dell’industria finanziaria in questo aiutano: la tradizione di Wall Street è che un calo nei ricavi è quasi sempre seguito da licenziamenti.

Meredith Whitney, uno dei migliori analisti finanziari in America, ha predetto di recente che tra la fine del 2010 e l’inizio del 2011, le grandi banche statunitensi elimineranno 80.000 posti di lavoro – un calo del 10 per cento da aggiungere alla flessione del 8 per cento negli anni della crisi. Per quelli che rimangono, un bonus da nababbo è pressoché garantito. Il che, a ben guardare, spiega sia l’uso a raffica della carta di credito da parte del mio amico, che un lavoro a gennaio ce l’avrà, sia la cautela dei rivenditori di beni di lusso. Le grande vendite di diamanti e yacht potrebbero essere solo rimandate a quando le banche decideranno chi resta e chi va. Per scrivere del «cambiamento» di Wall Street, forse non ci vuole Tom Wolfe, ma Giuseppe Tomasi di Lampedusa.