LUISA GRION, la Repubblica 17/12/2010, 17 dicembre 2010
CON LA CRISI PERSI 540 MILA POSTI CONFRONTO CON BERLINO "IMPIETOSO" - ROMA
Un Paese «deludente», che «ancora una volta rimane indietro» e che lascia lievitare il conto delle riforme mancate. Un Paese che non reagisce e che - al contrario degli altri - forse nemmeno prova a trovare la sua via d´uscita dal tunnel. Dall´inizio della crisi l´Italia ha perso 540 mila posti di lavoro e, al momento, non si vede la possibilità di un loro recupero. Anzi, secondo il rapporto Confindustria ("Se l´Italia punta sull´Ict-information e communication technology") nel 2011 la disoccupazione toccherà il tetto del 9 per cento, cominciando una leggera discesa solo l´anno successivo. Che il riavvio dell´occupazione non sia immediato e che ci voglia un bel po´ per recuperare lo si sapeva già, ma rispetto alla precedenti recessioni in questa «il mercato del lavoro si è deteriorato in maniera particolare per i giovani», visto che nella fascia d´età fra i 15 e i 24 anni la disoccupazione ha raggiunto il 28,2 per cento.
Così vedono le cose gli imprenditori, che mettendo l´una accanto all´altra le previsioni sul futuro traggono una conclusione per niente positiva. Il Pil, dicono rivedendo al ribasso le stime fornite a settembre, crescerà quest´anno solo dell´1 per cento e nel 2011 l´aumento non supererà l´ 1,1. «Una dinamica insufficiente a compensare la caduta dell´attività durante la recessione»: alla fine del 2012 il Pil risulterà ancora inferiore del 2,8 per cento rispetto al periodo pre-crisi. Un recupero perdente a fronte di quello messo in atto dagli altri paesi europei e destinato a pesare sugli anni che verranno perché, dice Confindustria, «il divario di sviluppo con l´aera euro si amplierà».
Alla fine del 2012 il nostro Pil sarà aumentato del 4,3 per cento, contro il 6,1 della media Ue e il 10,5 per cento della Germania. Un confronto, quello con i tedeschi, che le imprese definiscono «impietoso» e che dimostra come in Italia si poteva e si doveva fare di più. Certo, sottolinea il Centro studi «il miracolo tedesco ha poco del miracoloso e molto del faticoso, non è un fuoco di paglia» ma il risultato «di mutamenti strutturali» varati negli ultimi anni: dal welfare al mercato del lavoro e alla contrattazione, dal contenimento della spesa alla riduzione della pressione fiscale. E in più cambiamenti nelle università, internazionalizzazione, riconoscimento del merito. Fronti rispetto ai quali l´Italia «delude». Se non ci sarà una netta inversione di tendenza, prevede Confindustria, riguadagneremo i valori pre-crisi solo nel 2015, ma allo stato attuale delle cose «gli strumenti messi in campo paiono insufficienti».
Ed ecco allora che, senza sterzate, saremo destinati - se va bene - a vivacchiare. L´export ha retto bene, ma «non è sufficiente ad alzare il passo dell´economia italiana»; ed è un peccato perché ci sarebbe un enorme mercato, quello cinese, da conquistare. In Cina, si legge nel rapporto, i consumi sono destinati ad esplodere: «la classe benestante oggi conta 95 milioni di persone, saranno 201 nel 2015 e 424 milioni nel 2020». Un esercito di potenziali acquirenti che rischiamo di farci soffiare sotto il naso e non possiamo permetterci che ciò avvenga, visto che la nostra domanda interna è ben lontana dal riprendersi. I consumi cresceranno quest´anno solo dello 0,7 per cento per arrivare fra due anni al´1,2: progressi, sottolineano gli industriali, superiori agli aumenti di reddito. E ciò nonostante un´inflazione sostanzialmente stabile (all´1,9 per cento nel 2012). «La malattia della lenta crescita - conclude lo studio - non è mai stata vinta». Ora però pesa di più.