ANDREA MALAGUTI, La Stampa 17/12/2010, pagina 14, 17 dicembre 2010
Assange è libero La folla lo applaude - Stavano per farne un martire, ne hanno fatto un mito. Quando alle sei di sera il fondatore di WikiLeaks Julian Assange, vestito di blu, con la solita camicia bianca con il colletto sbottonato, esce dal portone della Royal Court of Justice, sullo Strand la terra trema
Assange è libero La folla lo applaude - Stavano per farne un martire, ne hanno fatto un mito. Quando alle sei di sera il fondatore di WikiLeaks Julian Assange, vestito di blu, con la solita camicia bianca con il colletto sbottonato, esce dal portone della Royal Court of Justice, sullo Strand la terra trema. «Julian, Julian, Julian». Un delirio. Centinaia di sostenitori sventolano cartelli con la sua immagine e battono furiosamente i piedi per terra. Cantano. Il tempo sembra fermarsi per un istante anche se la neve continua ad appoggiarsi fitta e sottile sul selciato. Il traffico si blocca. Decine di telecamere, flash dei fotografi, luci rosse. Dopo una settimana chiuso in una cella di isolamento del carcere di Wandsworth, uno stanzone gelido che ospitò anche Oscar Wilde, l’hacker australiano è libero su cauzione, almeno fino all’11 gennaio, quando si deciderà sull’estradizione chiesta dalla Svezia. Lo accusano di stupro, i suoi avvocati parlano apertamente di una vendetta americana, un modo violento per toglierlo di mezzo. Gli Usa sono il nemico. Assange alza il braccio destro e chiede silenzio. «È bello tornare a respirare l’aria fresca di Londra». Boato. È più spettinato del solito, magro, gli occhi scavati di chi non riesce a dormire da giorni, dalla pancia tira fuori una voce baritonale. In questo strano presepe del terzo millennio, a pochi giorni da Natale, gli avvocati gli si stringono attorno con l’attenzione riservata alle divinità. «Mentre stavo chiuso in fondo a un carcere vittoriano ho avuto il tempo per riflettere sulle persone detenute ingiustamente. Uomini e donne che soffrono molto più di me e che non dobbiamo dimenticare. Continuerò a lottare per dimostrare la mia innocenza». Ringrazia i legali, la stampa, i sostenitori, i garanti che hanno pagato le duecentoquarantamila sterline che gli consentono di essere lì. Lo sa che non è solo, ma ha spaccato il pianeta in due. Da una parte il potere, quello antico, dall’altra questa strana rivoluzione che contagia vecchi combattenti per la libertà e nuove generazioni internettizzate. Comunque vada a finire ci sarà un prima e un dopo WikiLeaks. «Se la giustizia non è sempre un successo, per lo meno non è ancora morta», grida. Non smettono più di applaudirlo. Si avvicina alla macchina, la neve gli imbianca la giacca, ma il respiro è lento ed è come se non sentisse il freddo. «Ho molta più paura che mi estradino negli Stati Uniti che in Svezia. Gli avvocati mi dicono che la mia incriminazione sarebbe già pronta. Ma io e il mio team andiamo avanti». Sorride. E’ la prima volta da giorni. Lo infilano su una berlina nera e lo portano nel Suffolk, alla Ellingham Hall, una villa in mezzo al verde che sarà la sua nuova casa. È di proprietà di Vaugham Smith, il ricco fondatore di Frontline, un club per giornalisti duri e puri. Dovrà portare un braccialetto elettronico, presentarsi alle 18 agli uffici di polizia e rispettare una specie di coprifuoco, ma potrà lavorare e incontrare chi crede. È un uomo che fa paura a molti. Svezia e Gran Bretagna si rimpallano la responsabilità di avere trascinato questo dibattito sulla cauzione fino all’appello. Gli inglesi dicono di avere inoltrato la richiesta che ha costretto Assange in carcere altri nove giorni su richiesta di Stoccolma. Stoccolma replica che è stata una scelta autonoma di Londra. Nessuno vuole la responsabilità di questo disastro. L’accusa di violenza è scivolosa. Chi mente? È l’ultima domanda di una giornata cominciata alle undici nell’aula numero quattro della Corte Reale. Un misto tra Westminster e un set di Harry Potter. Velluti rossi, libri antichi sulle pareti di legno e marmo, un soffitto di venti metri. Dopo due ore di dibattito il giudice Duncan Ouseley, un signore severo che vieta l’uso di twitter, decide che non esiste pericolo di fuga. «L’imputato rovinerebbe la sua immagine». Poi pronuncia l’unica parola che conta. «Libero». Assange è seduto dietro a sbarre nere in ferro battuto, mostra il pollice alzato alla madre Catherine. Lei gli manda un bacio, esce all’aria aperta. La circondano. «Sapevo che la giustizia inglese funziona. Ora voglio solo abbracciarlo». Fissa una immagine del figlio sul cartellone di un’attivista di WikiLeaks. Julian è spettinato, ha le mani bloccate dalle manette. C’è una scritta che dice: «Tu sei il mondo libero». Catherine si stringe nelle spalle. E le deve sembrare lontanissimo il tempo in cui le foto servivano solo a fissare un istante della loro felicità.