MARCO ALFIERI, La Stampa 17/12/2010, pagina 3, 17 dicembre 2010
“Il sistema è sgangherato Non possiamo fare meglio” - Spesa pubblica che cresce e tasse che non scendono
“Il sistema è sgangherato Non possiamo fare meglio” - Spesa pubblica che cresce e tasse che non scendono. Tanti bei discorsi, ma poi le vediamo le classifiche internazionali». Tax rate Italia (il rapporto tra imposte e profitti lordi): 48%; Germania e Spagna: 26. «Scusate, dov’è la sorpresa?», si stupisce Florindo Rubbettino, a capo di un miracolo d’impresa editoriale: 12 milioni di fatturato nel cuore scosceso della Sila. Leggere l’ultimo bollettino economico del Centro Studi Confindustria da Soveria Mannelli, Calabria profonda, ha il sapore atroce del déjà vu. Perché non può esserci stupore in un Paese che continua ad attirare le briciole degli investimenti esteri diretti in Europa e ha una giustizia civile che scoraggia le multinazionali. «Chi resta a galla, lo fa nonostante le zavorre di sistema», s’immalinconisce Rubbettino. «Peccato che nell’economia globale non basta resistere, bisogna innovare…». L’Italia non lo fa da 15 anni e il Csc lo ribadisce con l’evidenza dei numeri. È stabilmente in fondo al carro di Eurolandia, l’area lumaca del mondo. Figurarsi un confronto coi Paesi emergenti. «L’Italia è un grande ammortizzatore sociale: troppi posti di lavoro improduttivi a basso reddito che non spingono nemmeno i consumi», conferma Stefano Colli Lanzi, amministratore delegato di Gi Group, una delle più importanti agenzie per il lavoro in Italia, 800 milioni di ricavi, testa a Milano e piedi in mezzo mondo. A catena, «il sistema ingrossa le tasse per finanziare l’inefficienza e induce bassa produttività del sistema (-6% nell’ultimo decennio) e scarsa competitività (-30% in termini di costo del lavoro) misurati sul benchmark tedesco». Eppure per Colli Lanzi «ci sono Paesi in pieno boom come il Brasile in cui avremmo potenzialità enormi». Cosa aspettiamo? «Confindustria invece che fare i contratti centralizzati, ormai insostenibili anche per Fiat, dovrebbe aiutare l’internazionalizzazione delle Pmi...». Il sostegno all’estero è un punto che ritorna spesso tra gli imprenditori italiani. «Ho dovuto fare la spola con Mosca tra ottobre e novembre perché Cosmit e Ice si fanno la guerra e hanno promosso due diverse manifestazioni del mobile in Russia», racconta Fiore Piovesana, titolare della Camelgroup di Orsago (Treviso). «La Germania all’estero si presenta come un monolite. Noi, divorati dal campanile, non sappiamo fare sistema». Il resto della zavorra lo mette il teatrino litigioso della politica. Anche Fabio Storchi, presidente della Comer industries di Reggiolo (sistemi di meccatronica per macchine agricole e industriali), 1200 dipendenti per 280 milioni di fatturato, è preoccupato. «Noi andiamo bene, abbiamo il portafoglio ordini pieno. Tirano il Far East e gli Usa, dopo la grande gelata 2009. Ma se guardo intorno è durissima: il mercato domestico non risponde, l’alta occupazione produce stagnazione dei consumi e quindi della produzione industriale». Insomma dopo un biennio di tenuta (cassa integrazione e moratoria debiti) e di auto-elogio del carattere nazionale, con la frustata del Csc escono fuori tutte le magagne irrisolte. «Bisognerebbe crescere almeno del 2% per tagliare debito pubblico e disoccupazione, ma le migliaia di terzisti ancora nel guado della crisi non stanno dietro alle performance tedesche e alla redditività delle nostre medie imprese», calcola il presidente degli industriali torinesi Gianfranco Carbonato. Disegnando una statistica che assomiglia alla media di Trilussa. «Chi lavora stabilmente coi mercati extra Ue ha incrociato da mesi la ripresa, chi rimane sul mercato domestico fa fatica, alle prese con la concorrenza sul prezzo dell’Asia». Per Carbonato «servirebbe un ciclo di grandi investimenti per rilanciare il mercato interno». Per il resto non basta più neanche l’export, dove siamo campioni. Per sfruttare la ripresa bisognerebbe internazionalizzare di più. E qui conta la dimensionalità che non abbiamo (esporteremmo il 15% in più se avessimo la taglia d’impresa tedesca), la patrimonializzazione societaria (le nostre aziende hanno debiti finanziari pari al 34,6% del capitale investito contro una media tedesca del 21,1%) e la densità della platea (solo 200 mila aziende tricolori hanno rapporti collaudati con l’estero). «La Germania tanto invocata - riassume Riccardo Illy - è un Paese che fa politica industriale, ha un sistema di logistica efficiente e investe in ricerca il doppio di noi». Ancora: «Dov’è la sorpresa se non cresciamo?».