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 2010  dicembre 17 Venerdì calendario

LA CINGHIA STRETTA DI BERLINO

Sì, l’economia della Germania procede a tutto vapore: ma perché i tedeschi non sono contenti? Non si tratta solo di uno spostamento forte dei consensi politici che minaccia di far perdere ai cristiano-democratici di Angela Merkel tutte le elezioni regionali in programma per il 2011, ad Amburgo in febbraio, a fine marzo nel Baden-Wuerttemberg. I sindacati, che nei Paesi deboli dell’euro scendono in piazza contro l’austerità, in Germania chiedono aumenti dei salari.

Dell’euro i tedeschi si sono disamorati perché pensano di averne sofferto. Non si tratta soltanto dell’opinione popolare, c’è chi lo teorizza. Secondo Hans-Werner Sinn, uno dei più stimati economisti, presidente dell’istituto di ricerca Ifo di Monaco, negli anni prima della crisi la Germania ha sofferto una «emorragia» di capitali.
Una «emorragia» che ha depresso il Paese, tra l’altro abbattendone i valori immobiliari (il rovescio di quanto è accaduto in Irlanda e in Spagna); anche le imprese hanno investito pochissimo. Secondo Sinn, i successi attuali nell’export sono l’effetto di aver stretto la cinghia fin troppo negli anni precedenti. Ma occorre osservare che alcuni l’hanno stretta più degli altri. Dal 2000 al 2007 i redditi da capitale sono saliti dal 36,1% al 39,9% del valore aggiunto, mentre il potere d’acquisto dei redditi da lavoro ristagnava. Il mugugno popolare contro l’euro nasce da un tenore di vita che è rimasto fermo. Ma la colpa sta assai più nell’accentuata concorrenza sul mercato globale, in un Paese con l’industria orientata sull’export.

Tutte le riforme di uno Stato sociale troppo generoso realizzate nell’ultimo decennio - in sostanziale continuità tra il governo rosso-verde (1998-2005), la grande coalizione fra cristiano-democratici e socialdemocratici (2005-2009) e l’attuale centro-destra - hanno avuto come bussola una maggiore efficienza dell’industria, insieme con il contenimento della spesa pubblica. Poco si è fatto per liberalizzare il settore dei servizi, frenato da leggi e da privilegi.

Se i capitali fuggivano all’estero, non era solo per gli alti profitti promessi dal boom immobiliare a Dublino, a Malaga o a Siviglia. La stretta ai salari - come spesso tutto quello che fanno i tedeschi - è andata oltre le necessità di ricostituire sani margini di profitto per le imprese; non c’erano abbastanza opportunità di investimento produttivo, in patria o nei Paesi dell’Est dove si delocalizza, per tutti quei capitali. E allora avanti con gli impieghi speculativi, ai tempi in cui a Wall Street si diceva che i più pronti a comprare ogni genere di titoli tossici erano i banchieri della Germania.

Già, le banche. Molte delle esitazioni e delle giravolte del governo Merkel durante la crisi dell’euro possono essere spiegate con la tenace volontà di lavare in casa, e con tempi lunghi, i panni sporchi delle banche tedesche. Non delle grandi, come Deutsche o Commerzbank, ma delle banche regionali fondate sulla raccolta delle Casse di risparmio, strettamente collegate al potere politico locale; che per compensare i bassi profitti della inefficiente gestione domestica si sono gettate sui titoli tossici americani prima e sui titoli di Stato dei Paesi deboli poi.

Dove invece non è giusto criticare la Germania - come hanno fatto gli americani al G20 - è per la politica di bilancio. Un Paese con i conti in ordine ha potuto fare le scelte giuste. Nei consuntivi tracciati dal Fmi e dall’Ocse, le misure anticrisi del 2009 sono state tra le più ampie ed efficaci nei Paesi avanzati. Anche questo, oltre alla forza dell’export, ha permesso alla Germania il record strabiliante di non aver accresciuto il numero dei disoccupati; mentre ora, addirittura, si cercano ingegneri e tecnici qualificati anche all’estero. E la successiva stretta ai conti pubblici nel 2011 non fermerà la ripresa.