Luigi Spinola, Il Riformista 16/12/2010, 16 dicembre 2010
PERCHÉ FACEBOOK BATTE WIKILEAKS
Il padre di Facebook vince la sfida del web. I lettori di Time avevano votato Julian Assange, ma la direzione del magazine ha scelto Mark Zuckerberg. È lui la Persona dell’Anno 2010. Non perché uno sia la faccia virtuosa e l’altra quella banditesca della rete. La rivista non dà un premio di buona condotta. Misura l’influenza sui fatti del mondo, tant’è che nel passato ha regalato la copertina ad Adolf Hilter e Josef Stalin. Ed è stata - quella di quest’anno - una competizione tra pirati della rete, animati da quello spirito hacker che nella sua accezione migliore significa libera informazione, sperimentazione senza limiti e guerra alla burocrazia.
Assange e Zuckenberg sono accomunati anche dall’apparente contraddizione tra carattere e missione. ll campione della trasparenza di sé non ama rivelare neanche l’età. L’uomo che ha rivoluzionato il concetto di comunità - se è veritiero il ritratto tratteggiato nel film The Social Netwok - non è esattamente un animale socievole. I ragazzi però già da teenager hanno fatto scelte diverse. Assange a 18 anni irrompe nei computer della Nasa nel momento del lancio di uno Shuttle; Zuckerberg si muove tra i file dei rivali e compagni di Harvard. E ci ricava un business.
Ha fatto tutto molto bene. Sei anni dopo - mentre Julian assediato dai nemici di WikiLeaks fatica a trovare 200.000 sterline per uscire di galera - Mark è il più giovane miliardario del mondo. Il miglior datore di lavoro d’America, secondo una ricerca tra i salariati delle top corporation. E da poche settimane anche il più giovane filantropo, visto che si è impegnato - rispondendo all’appello di Bill Gates e Warren Buffett - a dare via la maggior parte della propria fortuna personale, che oggi vale circa 7 miliardi di dollari.
Ma che Zuckerberg lo faccia per soldi non sminuisce né la portata sovversiva, né il potere di Facebook.
u segue dalla prima pagina
«Voglio fare del mondo un posto più aperto», scrive la Persona dell’Anno nel suo profilo. Non è solo benevola retorica. Il business model del social network abbatte la protezione della privacy. Impone la condivisione. E fa circolare pensieri e parole in una nazione che ha già oltre mezzo miliardo di abitanti.
Quali idee? Buone e cattive, ma non tutte. Facebook è stato negli ultimi anni esaltato come strumento rivoluzionario (vedi l’Onda verde d’Iran) e attaccato come veicolo di odio. La dirigenza del social network però resiste alle pressioni, governative e non. Rispetta la legge certo ma ancora di più le proprie “condizioni d’uso”. È il governo di Facebook - la sua polizia virtuale - che salva un pensiero e ne rimuove un altro. Così Zuckerberg ha deciso in questi giorni di sottrarre una piattaforma organizzativa alla brigata di hacker che ha dichiarato una cyberguerra ai “nemici” di WikiLeaks. Esercitando il suo ruolo crescente di arbitro de facto della libertà d’espressione, avvertiva pochi giorni fa il New York Times. «Facebook ha oggi più potere di qualsiasi Corte Suprema, Presidente o Re nel decidere chi può farsi ascoltare e chi no» sintetizzava sul quotidiano il giurista Jeffrey Rosen. E chi lo controlla?