Maria Lucia Di Bitonto, Il Riformista 16/12/2010, 16 dicembre 2010
CARCERI DA SVUOTARE L’ULTIMO ANNO MEGLIO A CASA
Oggi entra in vigore la legge n. 199/2010, che consentirà a molti detenuti di finire di scontare la pena presso il proprio domicilio o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza o accoglienza, sempre che tale pena residua non superi l’anno; e sempre che non si tratti di persone nei cui confronti non si applicano gli ordinari benefici penitenziari, o di detenuti per i quali non è possibile effettuare una prognosi favorevole circa la loro condotta futura. L’obiettivo è quello di portare sotto controllo il sovraffollamento nelle carceri, in attesa della costruzione dei nuovi istituti penitenziari - tale forma di esecuzione domiciliare della pena avrà luogo fino alla completa attuazione del piano straordinario penitenziario, e comunque non oltre il 31 dicembre 2013.
Sia pure con ritardo la maggioranza, con il sostegno dell’opposizione, ha così dato seguito a quanto più volte preannunciato dal ministro della Giustizia, quando denunciava che il nostro sistema carcerario è fuori dalla Costituzione proprio perché l’asperità delle condizioni in cui versano i detenuti a causa del sovraffollamento nega effettività alla funzione rieducativa della pena. Dunque, questo provvedimento merita apprezzamento: nessun governo avrebbe potuto sottrarsi alla necessità di offrire soluzioni concrete e non più differibili per superare una situazione di emergenza conclamata, indegna di un paese civile.
Allo stesso tempo, non si può fare a meno di stigmatizzare la prospettiva asfittica che tale legge esprime, in palese contraddizione con la fisionomia rivendicata da un esecutivo che - solo a parole - individua nella riforma della giustizia uno degli aspetti più qualificanti della propria azione di governo. Se questa riforma servisse davvero a innalzare il livello di tutela dei diritti dei cittadini, la priorità politica dei riformatori - tanto più se pressati da un sovraffollamento carcerario difficilmente governabile - non potrebbe che essere la revisione della disciplina delle misure cautelari detentive applicate nel corso del procedimento penale prima che sia stata pronunciata una sentenza di condanna divenuta irrevocabile.
È noioso ripeterlo, ma il numero dei detenuti presunti innocenti attualmente è di poco inferiore alla metà del numero complessivo di persone in vinculis, e non di rado ha superato questa proporzione. Ciò significa che l’applicazione della più afflittiva delle misure cautelari non rappresenta affatto una extrema ratio nella prassi giurisprudenziale. Nel nostro paese, quanto più gravi sono i fatti e le responsabilità penali da accertare, tanto più forti diventano le istanze repressive, che determinano una torsione dello strumento cautelare in funzione anticipatoria della futura sanzione. Nonostante la riforma del codice di procedura penale che stabilisce a chiare lettere che le misure cautelari non possono mai avere la funzione di anticipare la pena, in materia di libertà personale dell’imputato continua a essere imperante la tradizione inquisitoria imperniata sulla tendenziale identificazione dell’imputato con il colpevole, che giustifica la confusione tra finalità cautelari e finalità preventive della detenzione ante iudicatum. Anche se il nodo è culturale prima che normativo, nondimeno sarebbe necessario che il legislatore prendesse atto di un fatto elementare: se i presupposti delle misure restrittive della libertà personale non sono tali da impedire l’ipertrofia applicativa che affligge il sistema cautelare - sovraffollando le carceri - ciò accade perché nel relativo procedimento non vi sono antidoti adeguati a prevenire e a scoraggiare prassi elusive. Molto probabilmente la ragione di queste ultime si annida nell’assenza della partecipazione difensiva prima dell’esercizio del potere coercitivo da parte del giudice penale. Per questo, un utile punto di partenza per avviare un ripensamento delle regole sulle misure restrittive della libertà personale potrebbe essere quello di valorizzare, con un ritardo più che decennale, la riforma costituzionale del giusto processo, rimasta finora pressoché inapplicata in ambito cautelare. Se il contraddittorio tra le parti poste in condizioni di parità davanti a un giudice terzo e imparziale costituisce l’unico possibile modo di essere della giurisdizione, non è ammissibile che tale schema procedimentale sia escluso proprio in una materia, quella delle restrizioni della libertà personale, in cui la riserva di giurisdizione rappresenta la più qualificante delle guarantigie costituzionali. Il rilievo di questa istanza riformista è enorme non solo sul piano ideale, ma soprattutto su quello strategico. Se l’ordinamento non riesce a salvaguardare efficacemente un diritto inviolabile come la libertà personale, vale a dire quel diritto che - insegnava il compianto prof. Grevi - «è presupposto di tutti gli altri diritti di libertà, in quanto logicamente li precede e li condiziona a livello operativo», come si può pensare, solo per fare un esempio, che quello stesso ordinamento possa mai assicurare tempi brevi per la risoluzione delle controversie tra privati e per il recupero dei crediti, entrambi essenziali alla crescita economica?