Camillo Langone, Libero 16/12/2010, 16 dicembre 2010
L’ITALIA CHE INCENSA LE BRUTTURE DA ARCHISTAR
SNOBBA I PALLADIANI
Ci siamo fatti scippare Palladio, adesso cerchiamo di tenerci stretti almeno i palladiani. Il gigantesco architetto italiano è stato riconosciuto dal Congresso degli Stati Uniti, con una risoluzione votata all’unanimità, nientemeno che «padre dell’architettura americana». Nei giorni scorsi democratici e repubblicani a stelle e strisce, evidentemente meno pressati dal contingente dei loro colleghi italiani, hanno trovato il modo di definire i suoi Quattro libri dell’architettura portatori «di un modello assoluto per l’immagine del mondo occidentale».
Ci sarebbe da andarne fieri se non ci fosse da mettersi a piangere: in Italia nemmeno i geometri di provincia hanno l’umiltà di chiamare padre l’autore del Teatro Olimpico e della Rotonda. Qui da noi si scopiazzano i più improbabili architetti internazionali, ormai sono arrivati pure gli iracheni (Zaha Hadid) a spiegarci come si fa: sono disposti a tutto i nostri progettisti pur di non seguire la tradizione di cui eravamo e potremmo ancora essere maestri riconosciuti. Palladio rinnegato e disonorato in patria, ma non così completamente come potrebbe sembrare contemplando il disastro dell’edilizia Anni Zero. A Londra (sempre all’estero, certo) hanno organizzato una mostra intitolata New Palladians da cui è stato ricavato uno splendido catalogo Artmedia che ho sulla scrivania in questo momento. Se amate la bellezza ve lo consiglio caldamente: fatevelo regalare per Natale, fatevelo regalare per la Befana, fatevelo regalare quando vi pare ma fatevelo regalare perché è una festa per gli occhi e un balsamo per l’anima. Dentro ci sono gli armoniosi, rasserenanti edifici realizzati negli
ultimi anni dai neopalladiani in tutto il mondo: le firme sono in maggioranza angloamericane ma, udite udite, c’è perfino qualche nome italiano.
Il principale fra questi è senza dubbio Pier Carlo Bontempi, professionista parmense a cui calza a pennello il detto evangelico nemo propheta in patria. Parma è funestata da nuove opere pubbliche che impoveriscono la città sia perché di scarsa qualità formale e materiale sia perché potrebbero trovarsi ovunque, oggetti seriali vampiri di identità: l’appena inaugurata Ghiaia, il cui tetto inconsulto nasconde e umilia la romantica cortina di antichi palazzi prospicienti il mercato; il cosiddetto Duc (Direzione Uffici Comunali) che appena fatto già cade let-
teralmente a pezzi; un ponte megalomane sul nulla; un altro ponte meno megalomane ma ancora più ridicolo per le file di bandiere penzolanti e sporche come davanti a certi
alberghi romagnoli fuori stagione; il rifacimento della stazione affidato allo spagnolo Bohigas così da toglierle ogni peculiarità facendola assomigliare a decine, forse centinaia di altre stazioni in Europa e nel mondo... Intanto Bontempi lavora in Francia dove dimostrano di tenerlo in grande considerazione dandogli la possibilità di costruire ex novo intere piazze (vedasi quel capolavoro che è Place de Toscane a Marne-laVallée).
L’esterofilia è l’ideologia che accomuna gli amministratori pubblici italiani, sia di destra che di sinistra, così gli altri valorosi connazionali presenti in mostra e nel catalogo devono accontentarsi di piccole realizzazioni (Gabriele Tagliaventi ad Alessandria, Luigi Del Sordo ad Alba Adriatica) o addirittura, come nel caso di Ettore Mazzola, di pubblicare disegni (bellissimi, ma pur sempre disegni). Scorro l’indice di New Palladians, studio le biografie dei protagonisti e scopro un dettaglio tra lo sconfortante e l’assurdo: ci sono architetti del Nord Italia, del Centro e del Sud ma nessuno, lo zero assoluto, del Veneto, la regione dove Palladio ha vissuto e operato. Bisogna farlo presente a Luca Zaia: si potrebbe importare la mostra londinese a Padova o a Venezia, si potrebbe indire un concorso per giovani neopalladiani (primo premio: un’opera pubblica da costruire in re-
gione)... Palladio deve diventare come il Prosecco: uno stile di vita presente, non un relitto del passato.
La sua lezione è attualissima: le costruzioni devono essere contemporaneamente belle e funzionali (vicino ai prestigiosi colonnati sapeva inserire senza stonature stalle e scuderie) e soprattutto devono essere proporzionate (uno spazio a misura d’uomo è anche a misura di cervello come dimostra la nascita di Facebook nei collegi neopalladiani di Harvard).
Il neopalladianesimo, che pure con il suo culto di forma e tradizione pende leggermente a destra, grazie alla sua estrema piacevolezza potrebbe mettere d’accordo tutti. Chi non vorrebbe pregare nelle chiese molto ratzingeriane costruite da Duncan Stroik tra California e Wisconsin? Anche il cattoprotestante Nichi Vendola le preferirebbe all’hangar eretico-minimalista costruito da Renzo Piano a San Giovanni Rotondo. Chi non vorrebbe, d’estate, tuffarsi nelle piscine delle ville disegnate da Ernesto Buch a Santo Domingo? Italo Bocchino lo farebbe senza pensarci due volte, salvo poi accorgersi che l’insieme fa venire in mente la berlusconiana Antigua. Non lasciamoli fuggire all’estero, i pochi neopalladiani di casa nostra, e attiriamo i neopalladiani stranieri perché ci aiutino a rimeritare il nome di Bel Paese.
Camillo Langone