Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  dicembre 15 Mercoledì calendario

«IO E BOCCACCIO, ALTRO NON C’È»


«Sono sempre io», scriveva, «il centro del mio interesse, io quello che sottopongo alla giuria del mio insindacabile giudizio su me stesso – mentre del mondo perdono quasi tutto, perché il mondo è sé e indivisibile e non può farci niente, e m’interessa solo come reagente a me stesso e alle sentenze segrete che pronuncerò contro di me, stivando verdetti come se facessi scorta per letarghi della ragione a venire». Così Sodomie in corpo 11. Però poi lo vedi parlare con emozione, commozione quasi, dell’ultimo gioiello della sua collana. «Mondadori manderà in libreria la nuova ristampa di Un cuore di troppo, con una nuova copertina. Raffigura un torso che è una sorta di unione tra Giotto e Freud.
L’autore si chiama Fabio Romano, un siciliano di ventidue anni. È una mia scoperta. L’ho incontrato a una cena di Luigi Ontani a Londra. Vedo questo Torso senza testa nel catalogo della sua prima mostra, a Modica, provincia di Ragusa, e gli chiedo: lo hai già venduto? Mi ha detto che si trovava in una casa di Roma, ma che aspettava ancora lo pagassero. "Ma quanto dovrebbero darti?", gli ho chiesto. "Quattromilacinquecento euro", mi ha detto. Mi sembrava un bel pò per uno sconosciuto di ventidue anni. Allora gli ho detto che gliene avrei dati duemiladuecento e gli avrei fatto fare la copertina del libro. In seguito, è risalito da Comiso, è andato a Roma a riprendersi il quadro e me lo ha portato a casa. Quando è arrivato gli ho dato quattromiladuecento euro, ma più i trecento euro che la Mondadori gli doveva per i diritti d’immagine della copertina, rieccoci a quei favolosi quattromilacinquecento euro. Meritatissimi, l’opera è un capolavoro, che ora sta appeso in una bellissima casa romana a goduria dei molti ospiti che vi passano e che subito rilevano la differenza tra l’arte processo di comunicazione di massa e l’arte processo espressivo di una mente unica in sé irripetibile.
«Poi uno si chiede come si fa a restare memorabili almeno per qualcuno, non sono necessarie le grandi opere proprie in qualche tempo, basta solo un pò di giusta generosità non ricattatoria, un semplice gesto di agnizione del genio altrui, Romano è giovane, fosse stato ottuagenario per me non cambiava assolutamente niente».
Capisci, allora, che Aldo Busi, lucente a sessantadue anni nella sua camicia rosa con radiosa cravatta multicolore Regimental è qualcosa di più dello scrittore spietato e provocante, dal personaggio televisivo che educa i ragazzi di Amici e si fa cacciare dall’Isola dei famosi per le sue dichiarazioni sul Papa. C’è un cuore ben compatto, lì, sotto le strisce della cravatta.
Busi è riapparso in video venerdì 3 dicembre, all’Ultima parola di Gianluigi Paragone su Raidue. Intanto, in auto, continua a raccontarmi del suo artista. «Non lo conosceva nessuno, ora non mi stupirebbe se avesse già fin troppe richieste, ma io gli ho proibito di vendere, se no non farà mai una mostra. Lo finanzio, per un anno niente dispersione di opere. E non è mica il primo, Andrea Gotti e Kieran Moore, che ho appena rincontrato a Berlino, e parecchi altri».
È fortunato, Fabio Romano, gli scrittori giovani non li finanzia mai nessuno. L’unico caso noto è quello di Stefano D’Arrigo, foraggiato a oltranza da Arnoldo Mondadori. «Quei venti anni e passa di finanziamento sono stati la rovina di D’Arrigo, che ho anche incontrato, con la moglie, poco prima che morisse. Io l’ho letto, sa, Horcynus Orca. Chissà che capolavoro pensava di avere Arnoldo, il semianalfabeta più creativo del secolo insieme a... lasciamo perdere, non vorrei tralasciare troppi nomi... gli dava di quei soldi, da mantenere lui e la sua famiglia, come forse solo al D’Annunzio, ma quelli a D’Arrigo erano a fondo perduto, quegli altri era per ingraziarsi Mussolini e il cartaceo della scolastica nazionale. Tutto per questa cosa che veniva procrastinata, procrastinata... A un certo punto, D’Arrigo ha perso il senso, e la sintesi del romanzo. Capisco che quando uno scrive e aggiunge poi è duro togliere e invece di andare per sottrazione si va per accumulo. Ma l’accumulo di per sé non crea l’opera. C’è la ripetizione, il compiacimento del termine arcaico, la stessa cosa magari D’Arrigo la dice tre volte perché un anno l’ha detta così, poi cinque anni dopo in altro modo e cinque anni dopo ancora diversamente e invece di scegliere una sola versione le ha messe tutte e tre. Ed è chiaro che un libro che avrebbe potuto essere un capolavoro di trecento pagine, portato al triplo... Il problema è sempre quello di rinunciare, di tagliare i rami secchi, di sopportare la ferita d’orgoglio di un solo altro "ahi!"».
Rinunciare. Busi ha rinunciato alla scrittura, da un po’. Gli chiedo se per caso, come Cormac McCarthy, non gli siano venuti a noia i romanzi e legga solo saggi scientifici. «Io cerco sempre di trovare il romanzo. Per me il romanzo va oltre il saggio, se è un romanzo in quanto ultimo organismo aggiornato dell’antropologia linguistica e quindi del dare forme nuove al vecchio fatto di essere gli stessi umani di sempre soggetti alle variazioni politiche, economiche, scientifiche, religiose, tecnologiche e infine all’immediato oblio di tutto quanto ci si crede di essere e di essere diventati in meglio o in peggio, cioè se è un romanzo non confezionato a fini contingenti, per compiacere la versione moderna del Principe, cioè il cosiddetto mercato delle malchiavate di entrambi i sessi di Facebook e altra plebe consumatrice di sogni a tradimento, reazionari. Guardi, io piuttosto che intitolare un libro Leielui mi uccido, è già un delitto di lesa maestà che si permetta un titolo così me in vita».
Ma ci sono romanzi italiani che gli siano piaciuti? Figuriamoci. «Non ci sono. È anche per quello che ho smesso di scrivere. Alla letteratura è capitata la stessa cosa che all’arte con l’irruzione dell’informale e dell’astrattismo, diciamo, del segno psichico oggi del tutto impiegatizio, di cui già quasi due secoli fa ci dice tutto Balzac nel Capolavoro sconosciuto. Sono venuti meno i parametri e si sono arricchiti gli addetti alle pubbliche relazioni per rendere appetibile l’invendibile. L’arte contemporanea, di cui sono un esperto forse unico in tutto l’Occidente in quanto scrittore, è in balia della propaganda, del discorso che verrà fatto sull’arte stessa. In Italia poi, la letteratura non c’è mai stata, perché essa si basa sulla libertà, anche da se stessi, dal meschino proprio punto di vista stesso. Per me la letteratura italiana è costituita dai racconti del Decamerone sprovvisti ovviamente della parte moralistica del proemio e del finale, e dai miei libri. Boccaccio e Aldo Busi. Questa è stata la letteratura italiana. Non c’è altro. Tutto il resto non è letteratura, è un’altra cosa, chiamiamola pure letterarietà ancillare al Signore o al Monsignore o al target dei Signorini di turno e ci siamo».
Aldo Busi era già lo Scrittore in tenera età. «La mia lingua madre è il dialetto bresciano, per me è l’italiano la prima lingua straniera appresa. A trent’anni, avendo anche la madre veneta, non sapevo la differenza tra copia con una "p" e coppia con due "p". Facevo di quelle toppe tremende. Ma ho cominciato a scrivere professionalmente a sette anni. In terza elementare i miei temi facevano il giro del paese. Citavo le bestemmie, sempre però fra virgolette, quindi non erano attribuibili all’autore. Ero considerato tremendo e quindi affascinante. E scoppiavano certi casini tra provveditorato, curia e caserma... Nella mia gioventù sono stato in Francia, in Inghilterra, in Germania, in Spagna, ma non ho imparato nessuna di queste lingue a livello di lingua madre, perché ero concentrato nell’apprendere l’italiano e poi, per quanto sembri strano, perché, più per pigrizia che per carattere sono taciturno, insomma, se non mi si chiede niente, taccio, e chiedo io e sto zitto e intanto ascolto... ascoltavo, ecco, adesso tutta questa pazienza non ce l’ho più, dopo tre frasi so già cosa chiunque potrebbe dirmi tra tre ore, quindi me la batto subito. Questo lessico dell’Italiano sarebbe immenso quanto quello dell’Inglese se fosse parimenti mediato dai dialetti, dalle vulgate locali... la gente quando parla usa trecentocinquanta lessemi, la letteratura, quella che oggi chiamiamo letteratura, non ne ha più di millecinquecento, se si toglie il birignao dei sinonimi voluto da quella orribile inclinazione al bello scrivere cruscante. Io, qualcuno lo ha calcolato per me, ne ho trecentocinquantamila, e non sono affatto difficile o astruso o elitario. C’è una bella differenza, no? Mi è capitato che qualcuno mi abbia detto: "Ho dovuto interrompere la lettura di La signora Gentilin dell’omonima cartoleria - che secondo me è un capolavoro - perché non capivo minimo cinque parole a pagina". E consultare un dizionario? Non viene più in mente a nessuno».
Però, nel 2010, lo scrittore più celebrato del Paese non è Aldo Busi, ma Roberto Saviano. «Non è uno scrittore, è un giornalista, sarebbe come dire che Cristina Parodi è Marilyn Monroe. Io l’ho difeso oltre ogni limite sin dall’inizio, il suo impegno civile non si discute, poi è un ragazzo in motorino e io sono così apprensivo... Mi sembra di avergli riconosciuto il minimo. Uno che legge professionalmente, se si trova sotto gli occhi Gomorra vede un salto di stilemi - perché di stile non ce n’è - ogni dieci pagine. C’è troppa gente che c’ha messo le mani, lo senti e lo vedi, è zeppo di ripetizioni, è stato editato malissimo. Io Saviano ho cercato anche di leggerlo su Repubblica. Ragazzi, gronda retorica come io cerume da decompressione aerea. E non ci racconta mai niente di sé. Sborra Saviano? La sua mi sembra una solitudine molto affollata, un Rotary di cene da ex Cenerentole tutte col faccino tuttora contrito per mestiere... seghe collettive ho i miei dubbi... sa, l’ambiente debenedettiano è un tantino puritano e perbenista per certi schizzi liberatori non a parole. Tante cose sulla camorra, se voglio, le trovo anche sul Mattino di Napoli, che magari trova anche, a differenza di Saviano, un trafiletto per dirci qualcosina anche del fu cardinale Giordano e della storia di usura in cui fu coinvolto col fratello. Qualcosa di sé, della sua struttura profonda, anche sociale e, ormai, societaria, non ce la dirà mai, esattamente come non ce la dice Eco e tanto meno Travaglio... Gomez, poi, meglio stendere un velo pietoso. Sanno parlare solo d’altro, d’altri, come se loro fossero dei semplici messaggeri alati, asessuati, apolitici, senza dazio di appartenenza ideologica, di condivisione della stessa torta occultata ma non occulta, mica siamo tutti scemi. Non sto parlando di pruriti autobiografici frustrati, io sono l’antitesi del guardone. Gli inglesi parlano di se stessi utilizzando la terza persona; i francesi usano la prima ma perché sono degli sporcaccioni, amano molto mettere la bolletta delle mutande in piazza, anche se è letteraria, ingenuamente pornografica; gli italiani o sono aulici o omertosi. A me queste sacre trinità del bello in maschera non interessano. Quando scopro qualcosa in me, penso che non sia mia e quindi ho il dovere di portarla alla luce, di renderla pubblica. La mia idea, soprattutto la sua forma, non è solo frutto della mia mente, è anche una costruzione della mente sociale nella sua storia o nel suo mito della Storia, della mente dal primo grido non ancora traslitterato uscito dalla bocca del primo ominide e di conseguenza dal primo graffito o formalizzazione del pensiero in poi. Aldo Busi... Aldo Busi è un ente molto astratto per me prima di ogni altro. E poi a me Aldo Busi ha portato solo male, disgrazia, emarginazione. E poi soprattutto mancanza d’amore, perché tanto amabile non è neppure con me».