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 2010  dicembre 16 Giovedì calendario

Biografia di Vittorio Emanuele II

Copertina / Sovrani VITTORIO EMANUELE II Il re che volle l’Italia Unita Viste le premesse delle celebrazioni per i 150 dell’Unità e come non è stato ricordato il Conte di Cavour meglio non farsi illusioni. Nonostante una mostra che sta per aprire i battenti in Piemonte, nei prossimi mesi anche Vittorio Emanuele II di Savoia rischia di essere per lo più criticato o citato solo di sfuggita, quasi si sia trattato di un comprimario e non di un protagonista assoluto del Risorgimento. Ecco perché «Storia in Rete» ha deciso di muoversi per tempo e dedicare al “Re Galantuomo” copertina e molte pagine per spiegare chi è stato davvero. E perché gli siamo debitori di un’impresa esaltante e di una lungimiranza non comune. Meriti e doti che molti, oggi, tendono a minimizzare, demonizzare o dimenticare

di Aldo A. Mola

Vittorio Emanuele II di Savoia fu il primo re d’Italia. Per un giudizio obiettivo, Vittorio Emanuele II va inquadrato in una visione panoramica nella sua epoca. In quale contesto si mosse? Chi erano gli altri sovrani sulla scena internazionale negli anni in cui a Torino si fecero le mosse decisive per avviare l’unità d’Italia? In Austria c’era Francesco Giuseppe d’Asburgo, imperatore dal 1848 al 1916. La regina d’Inghilterra Vittoria venne incoronata nel 1837 e morì nel 1901 anche col titolo di “Imperatrice delle Indie”. In Russia, Alessandro I Romanov divenne zar nel 1855 e fu spazzato via da un attentato nel 1881. L’Impero d’Austria, il regno di Gran Bretagna e quello di Russia esistevano da secoli. La Francia era passata dalla monarchia dei Borbone all’Impero Napoleonico per approdare, nel 1814-1815 alla Restaurazione (ancora i Borbone) e nel 1830 al regno degli Orléans. Rovesciati i quali, nel 1848, si ebbe una breve esperienza repubblicana poi affossata dallo stesso presidente eletto: quel Carlo Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del Grande Còrso, che diventerà nel 1852 imperatore a sua volta col nome di Napoleone III. Una figura importantissima anche per la storia italiana… Gli altri regni d’Europa ebbero storia minore: erano sotto tutela. Fece eccezione quello di Prussia, che generò l’Impero di Germania due secoli dopo la rovinosa Guerra dei Trent’anni e germinò due guerre mondiali.
Il regno d’Italia nacque quindi con Vittorio Emanuele II di Savoia che estese, per qualche tempo, la propria influenza anche su antichi regni come quelli di Spagna e Portogallo. Negli anni della sua ascesa infatti Portogallo e Spagna, in preda a guerre dinastiche, furono sull’orlo dell’abisso. Dal 1868 la Spagna divenne repubblica. Tornò monarchia nel gennaio 1871 con il ventenne Amedeo d’Aosta, secondogenito di Vittorio Emanuele II, una cui figlia, Maria Pia, era invece regina del Portogallo. La figura di Vittorio Emanuele II fa riflettere sul ruolo svolto dalla monarchia sabauda nell’unificazione italiana. Centocinquant’anni dopo è chiaro che senza di essa l’Italia non avrebbe conseguito unità e indipendenza: due carte di credito concesse alla persona del re dal “concerto delle grandi potenze”. A lungo venne ipotizzato un apposito Congresso, come quello di Parigi del 1856 o addirittura come quello di Vienna. Poi i “Grandi” dell’epoca imboccarono la scorciatoia: lasciare che gl’italiani decidessero le proprie sorti, a patto però che il rappresentante della dinastia più antica del continente se ne facesse garante. Era un re costituzionale. Quindi Vittorio Emanuele II gettò sulla bilancia della storia il governo e il Parlamento bicamerale che lo sosteneva. Non era solo. Aveva alle spalle la nazione italiana. Ma senza di lui la nazione non avrebbe avuto alcun credito. La dirigenza degli altri Stati europei, decisivi per le sorti dell’Italia, ne conoscevano bene la realtà. Per comprendere come le grandi potenze finirono per accettare l’avvento della Nuova Italia bisogna riflettere sul percorso seguito da Casa Savoia dalla Restaurazione (1814) al 1859-1860, gli anni decisivi. Ma anzitutto occorre interrogarsi sulla peculiarità del “re”, una persona predestinata al trono sin dalla nascita, anzi dalle nozze dei genitori, nozze sempre frutto di strategie matrimoniali sperimentate e perfezionate nei secoli. Sin da bambino il sovrano viene educato al “mestiere di re”. Il re è tale ogni momento. La sua giornata può essere piena di noia o di stravaganze, di esercizi fisici, studio, impegni di corte o personali. Ha la sua ovvia ordinarietà, ma è sempre quella di chi detiene la somma dei poteri per diritto ereditario e li trasmette al successore. Tra le peculiarità del ruolo c’è il fatto che non spetta al sovrano stabilire chi ne prenderà la corona. L’erede gli è assegnato dalle leggi della Casa: un figlio o il parente prossimo in grado, a sua volta formato per fare il re. Non è detto che un re, in quanto tale, debba per forza avere un ampio disegno storico. Vittorio Emanuele lo ebbe, forse non da subito ma lo ebbe. Nella prospettiva di lungo periodo, poco conta se e quanto re Vittorio abbia prefigurato l’unità nazionale e se sia stato del tutto consapevole dei suoi molteplici passaggi. Di certo condivise la meta, che non fu un mero ingrandimento dei domini della sua Casa, ma rispose alle attese di tre generazioni di patrioti: dall’illuminismo ai liberali costituzionali del 1820-31, delle sette segrete, fino ai protagonisti della prima guerra d’indipendenza del 1848-1849. Alla sua nascita, in realtà, nulla poteva far prevedere che il piccolo Vittorio Emanuele sarebbe potuto diventare un giorno anche solo re di Sardegna.
Nel 1820 a Torino regnava Vittorio Emanuele I, settimo dei dodici figli di Vittorio Amedeo III e di Maria Antonietta di Borbone (Casa di Spagna). Il primogenito, Carlo Emanuele IV, sul trono dal 1796, dal 1802 era stato costretto a ridursi re in Sardegna dalle armate di Napoleone ancora generale della Repubblica francese. Dedito a pratiche devozionali, abdicò a favore del fratello Vittorio Emanuele I che nel 1814, alla caduta di Napoleone, fu restaurato sugli Stati di Terraferma, ingranditi con l’intera repubblica ligure, l’ex repubblica di Genova. Da Maria Teresa d’Asburgo-Este Vittorio Emanuele I ebbe cinque figlie e un maschio, morto nel 1799 a soli tre anni. In Casa Savoia valeva la legge salica, cioè la successione di maschio in maschio secondo le patenti del 1780-82 regolanti le nozze dei principi del sangue. A Vittorio Emanuele sarebbe quindi succeduto un altro figlio di Amedeo III, il fratello minore Carlo Felice. Nel marzo 1821 Vittorio Emanuele I abdicò per non concedere la costituzione richiestagli dai “liberali” (aristocratici, militari e autorevoli borghesi), come già era accaduto nel regno delle Due Sicilie. In attesa che Carlo Felice rientrasse da Modena, ove era ospite del cognato, la reggenza fu assunta dal ventiduenne Carlo Alberto (1798-1849), discendente di Tomaso principe di Carignano, figlio di Carlo Emanuele I, duca dal 1580 al 1630. Orfano a un anno del padre Carlo Emanuele Savoia-Carignano, trascurato dalla madre Albertina di Sassonia-Curlandia, il giovane Carlo Alberto dapprima parve cedere, poi entrò in conflitto con i liberali che avevano promosso la “rivoluzione” piemontese. Accusato comunque di cedimento, il principe si allineò ben presto agli ordini del nuovo sovrano. Il cinquantasettenne Carlo Felice, sposato con Maria Cristina di Borbone delle Due Sicilie, non aveva eredi maschi per cui Carlo Alberto era, comunque, il suo successore di diritto. Uno scenario che non faceva impazzire gli ambienti di corte viste le recenti prove. Del resto la possibile ascesa al trono di Sardegna del principe di Carignano era stato già in discussione ai tempi della Restaurazione non tanto perché i genitori avessero mostrato simpatie per la Francia napoleonica quanto perché il piccolo regno dei Savoia faceva gola a molti e comodo a tutti. Infatti, l’ipotetica cancellazione del Regno sabaudo avrebbe portato l’Impero d’Austria a confinare con la Francia: un possibile motivo scatenante di una nuova guerra europea. Da parte loro, l’impero russo, la Gran Bretagna, la Prussia e persino la piccola Svizzera non sarebbero stati a guardare, non tanto per mire dirette sui domini sabaudi ma per i danni derivanti dall’ingrandimento dell’una o dell’altra potenza continentale. Proprio i princìpi cardinali del Congresso di Vienna, cioè il ripristino del legittimismo e l’equilibrio tra le potenze, finirono quindi per spianare la via al riconoscimento di Carlo Alberto quale principe ereditario. Dopo i fatti del 1821, Carlo Alberto rimase “sotto osservazione”. Nonostante il veloce dietrofront ai danni dei liberali, Carlo Felice fu sempre scostante nei confronti del nipote. La formazione dei figli di Carlo Alberto, Vittorio Emanuele e Ferdinando, divenne così un affare di Stato. Il primo nacque a Torino il 14 marzo 1820, il secondo il 15 novembre 1822. Rientrato dal lungo forzato soggiorno in Toscana (maggio 1824), Carlo Alberto affidò i figli a due savoiardi: la governante Nicoud ed Andrea Charvaz, sacerdote, poi vescovo di Pinerolo, Cavaliere della SS. Annunziata. Con la moglie Maria Teresa si occupò personalmente della educazione dei principini.
Ma nel 1830 Carlo Felice nominò governatore dei principi il cavaliere Cesare Saluzzo di Monesiglio e come suo vice Giuseppe Gerbaix de Sonnaz, integrati da un sottogovernatore e da un viceprecettore, padre Lorenzo Isnardi, uno scolopio di tendenze liberali. I contrasti tra Isnardi e il governatore Saluzzo divennero però ben presto così tesi che il sacerdote venne rapidamente allontanato. Anche la minima ombra di inclinazione alle riforme era sufficiente a determinare l’intervento di Carlo Felice che lasciò campo libero solo con la propria morte, il 27 aprile 1831. Ora Carlo Alberto poteva decidere liberamente dell’educazione dei suoi figli La giornata dei principi non era oziosa. Dalle 5 del mattino alle 9 di sera si susseguivano preghiere, lezioni, studio, esercizi fisici, incontri protocollari e un’ora con la Regina, talvolta anche con il padre. Vittorio Emanuele non brillò mai negli studi. Si applicava poco e male. Agli esami del 1832, secondo uno dei precettori «può dirsi ... non abbia saputo niente di niente». I principi studiavano religione, grammatica, letteratura francese e italiana, lingua latina, economia, nozioni di fisica, chimica e agronomia, geografia, arte militare e strategia oltre alla storia della loro casata. I docenti furono tutti di prim’ordine, successivamente destinati a cattedre universitarie, se già non le ricoprivano: Angelo Sismonda, Giuseppe Dabormida, Agostino Chiodo, il grecista Boucheron e Carlo Sobrero, colonnello d’artiglieria, zio di Ascanio, inventore della nitroglicerina e a sua volta zio della moglie di Giovanni Giolitti, Rosa. A differenza del fratello minore, il principe ereditario prestava scarsa attenzione, non memorizzava, si mostrava stanco, ricordava poco ma pareva ridestarsi quando si parlava d’armi e di storia dei Savoia, di sistemi difensivi, di fortificazioni, di battaglie, armi, cavalli... Il 12 aprile 1842 Vittorio Emanuele sposa a Stupinigi una principessa austriaca: Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena (1822-1855) e nell’agosto 1847 il ventisettenne Duca di Savoia siede per la prima volta nel Consiglio della Corona. Con l’elezione di Pio IX (16 giugno 1846) l’Italia era percorsa da sentimenti liberali. Massimo d’Azeglio aveva pubblicato il “Manifesto” per un’opinione nazionale. La borghesia premeva per riforme. Al conte di Castagnetto il duca Vittorio Emanuele confidò che bisognava mettere un freno alle spinte liberali perché «vedo che la repubblica s’avvicina». Non sbagliava anche se il padre mostrò di pensarla diversamente o, semplicemente, mostrò di vedere più lungo. Nell’autunno 1847 Carlo Alberto concesse libertà di stampa e l’elezione dei consigli comunali e divisionali, mentre i sindaci e gli intendenti di province e divisioni rimasero di nomina regia. In poche settimane fiorirono quotidiani di tutte le tendenze. La gara per le elezioni assorbì entusiasmi che diversamente si sarebbero riversati in altre direzioni e avrebbero messo in discussione le prerogative della monarchia. Nel gennaio 1848 la pressione crebbe di tono. L’8 febbraio Carlo Alberto annunciò l’imminente promulgazione dello Statuto: una decisione che divise la corte tra chi la riteneva un passo saggio e ponderato e chi la considerava l’anticamera di rivolgimenti incontrollabili. Tra i motivi di allarme vi fu la violentissima campagna di opinione contro la Compagnia di Gesù, accusata di tramare contro lo Stato. I gesuiti vennero costretti a lasciare il regno. Il 17 febbraio un regio editto riconobbe parità di diritti civili e politici ai valdesi. Seguì la parificazione degli ebrei. La svolta vera però venne dall’estero. Il 22 febbraio 1848 Parigi insorse. Luigi Filippo d’Orleans (1773-1850), il “re borghese”, riparò in esilio. Nasceva così l’effimera Seconda Repubblica francese. Per il Piemonte fu un giorno difficile. Non solo per Carlo Alberto. Anche il moderato Camillo Cavour capì che non si poteva andare molto oltre. La monarchia avrebbe concesso senza cedere, anche perché il suo vero pilastro rimaneva l’esercito la cui spina dorsale era rappresentata da ufficiali orgogliosi di secoli di fedeltà alla Casa e ai suoi simboli, a cominciare dall’Azzurro Savoia. Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto di Savoia-Carignano promulgò lo Statuto. Da assoluta la monarchia sabauda divenne rappresentativa. Il 23 marzo Carlo Alberto dichiarò guerra all’Impero d’Austria. Il duca di Savoia Vittorio Emanuele, comandante di una divisione di riserva, fece la sua parte, mostrando tempra generosa e pugnace, da Pastrengo (30 aprile 1848) a Custoza (23 luglio) e, alla ripresa del conflitto, a Mortara e Novara: una battaglia, quest’ultima, nella quale le perdite degli asburgici furono superiori a quelle piemontesi, ma l’Impero (ormai pacificato dopo mesi di rivoluzioni compresa l’insurrezione dell’Ungheria) aveva riserve immense mentre il Piemonte era allo stremo. Il re abdicò e Vittorio Emanuele ebbe la corona, senza alcuna cerimonia. Vittorio Emanuele II salì così al trono il giorno della sconfitta di Novara (23 marzo 1849), quando sembrava che tutto fosse perduto. L’Impero d’Austria aveva vinto Carlo Alberto, che si riscattò con l’abdicazione e l’immediata partenza per l’estero. Nessun abbraccio alla partenza. Nessun “arrivederci”. Padre e figlio non si videro più. Era il prezzo della Corona. Carlo Alberto morì a Oporto a fine luglio 1849, volgendo le ultime parole ad Alessandro Riberi, il medico inviatogli dal re: “Vi voglio bene, ma muoio”. La triste fine di Carlo Alberto sembrava decretare anche il mesto tramonto del suo progetto e delle sue speranze. Il regno di Sardegna era isolato ma solo dieci anni dopo, nell’aprile del 1859 re Vittorio Emanuele II scese in guerra nuovamente contro l’Impero d’Austria. Aveva a fianco l’imperatore dei francesi, Napoleone III, e prevalse. Mostrò che i piemontesi sapevano battersi. In altri due anni, il 17 marzo 1861, divenne re d’Italia. Il 29 dicembre 1870 entrò in Roma. In due decenni la carta politica dell’Italia era cambiata completamente. Nel 1848 vi si contavano otto Stati. Nel 1870 ve n’era uno solo, il regno d’Italia. Trento e Trieste continuavano ad appartenere alla corona d’Austria, ma non esisteva più una compagine rivale col rango di Stato, com’era stato il regno Lombardo-Veneto nell’ambito dell’Impero asburgico. Esisteva solo l’Italia e le “terre irredente”. Ma l’avvio di quella felice rivoluzione, nel 1849, era stato lento e stentato: Vittorio Emanuele nutriva rancore e disprezzo nei confronti degli “avvocati” che discutevano mentre lo Stato era in pericolo. I governi non avevano dato prove brillanti. Il Parlamento neppure. I problemi erano immensi. Anzitutto la stipula del trattato di pace con l’Austria che pretendeva un’indennità di guerra di 200 milioni e di occupare la cittadella di Alessandria con 20 mila uomini e duemila cavalli a carico del vinto. Il re sostituì il conservatore de Launay con il liberale Massimo d’Azeglio. Fece intendere che la corona contava sul sostegno dei liberali. Aveva però bisogno di mostrare la compattezza del Paese: quello che aveva restaurato Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele I, Vittorio Amedeo II... La Camera, però, anche con le elezioni del 15 luglio 1849 rimase espressione di circoli ristretti. Azeglio fece scudo al re, che sciolse la Camera e il 20 novembre esortò a eleggere deputati consapevoli dell’emergenza. Venne ascoltato. Il 5 gennaio 1850 la nuova Camera approvò il trattato di pace con l’Austria. Da molti l’iniziativa del re venne bollata come indebita ingerenza nelle libere scelte dei cittadini. I severi critici del monarca non dissero però se quella Camera, eletta da una quota modestissima di elettori, rappresentasse davvero la popolazione né quale sarebbe stata la sorte del regno se il trattato non fosse stato approvato. Nel 1850 il regno di Sardegna non aveva amici. E’ vero che il Piemonte era asilo di politici scampati alla repressione negli Stati i cui sovrani avevano strappato le costituzioni concesse nel 1848, ma essi erano una pattuglia a confronto di quanti guardavano con sospetto a Torino, considerata alla stregua di una centrale di destabilizzazione politica. Pesavano soprattutto le leggi contro i privilegi del clero e il conflitto tra il governo e il potere ecclesiastico, culminato nell’arresto dell’arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, tradotto nel forte di Fenestrelle ed espulso dal regno benché fosse stato insignito in precedenza del Collare dell’Annunziata e quindi fosse da considerare a tutti gli effetti “cugino del re”. Vinte alcune battaglie, Azeglio perse la sua guerra: l’inciampo definitivo arrivò sulla legge sul matrimonio civile, preludio al riconoscimento del divorzio. Il quarantenne ministro delle Finanze Camillo Cavour s’intese con l’esponente di spicco della sinistra, Urbano Rattazzi e subentrò ad Azeglio, che il re tentò invano di sostituire con un ministero cattolico moderato (Cesare Balbo e Ottavio di Revel). Divenuto primo ministro alla fine del 1852, Cavour intrecciò politica estera (alleanza con Gran Bretagna, Francia e Impero Ottomano contro quello russo: scelta che significò l’impegno piemontese nella guerra di Crimea, 1854-1856) e abolizione degli ordini ecclesiastici contemplativi. Il re era favorevole alla guerra ma contrario alla politica ecclesiastica di Cavour che si dimise quando il vescovo di Casale, Luigi Calabiana, propose di versare al governo un milione di lire a sostegno del “basso clero” in cambio dell’incolumità dei conventi. Il re esitò. Era sgomento per la morte repentina della regina madre, della moglie, del fratello Ferdinando e alla malattia dell’ultimogenito che morì pochi mesi dopo. Stava per cedere ai conservatori. Però anche Azeglio, che nutriva poca simpatia per Cavour, lo esortò “con le lagrime agli occhi e inginocchiato ai suoi piedi” a riprendere il programma liberale. Il re non trovò nessuno disposto a sacrificarsi in cerca di una maggioranza introvabile. Cavour tornò così presidente: espressione del Parlamento, non della sola volontà del sovrano. Il re ne guadagnò, perché da quel momento fu il governo a rispondere al Paese. Ma i cardini della grande politica rimasero nelle mani del sovrano. La storiografia è stata ingenerosa nei confronti di Vittorio Emanuele II. E’ comprensibile. Il primo re d’Italia si attirò l’odio inestinguibile dei laudatores degli Stati preunitari, dei clericali, dei tardofederalisti, dei veteromazziniani, dei proto e postsocialisti, dei gobettiani originari e di complemento e poi di quanti nelle biblioteche e nei chiostri spiegarono che loro sì avrebbero fatto l’Italia meglio di quanto aveva saputo fare “Monsù Savoia”. Ai tanti strenui nemici della “conquista” sabauda dell’Italia s’aggiunse la gara a distinguerlo dai discendenti e soprattutto dal “re signore”, che il 13 giugno 1946 lasciò l’Italia affinché non fosse versata una goccia nel nome della Casa che l’aveva unificata: nobile figura retorica. Si dimentica o viene lasciato sotto traccia che Vittorio Emanuele II gettò tutto sul tavolo della storia. L’accordo di Plombières tra Cavour e Napoleone III fu importante ma va ricordato che esso prese corpo solo con la firma del trattato di alleanza tra regno di Sardegna e impero di Francia sottoscritto a Torino il 26 gennaio 1859 dal principe Gerolamo Napoleone che il 30 gennaio impalmò la primogenita del re Maria Clotilde (1843-1911), sedicenne. In virtù di quegli accordi Vittorio Emanuele accettò di cedere alla Francia la sua originaria Savoia: un cambio che non era solo di chilometri quadrati ma incideva nella memoria e nelle scelte di migliaia di savoiardi e di nizzardi (tra cui un certo Giuseppe Garibaldi) posti al bivio tra il nuovo sovrano e i secoli della storia condivisa con la Casa. Riconoscere la centralità del ruolo svolto in quegli anni cruciali da Vittorio Emanuele II non comporta alcuna sottovalutazione del ruolo svolto da Cavour, che rimase il suo punto di riferimento. Significa però comprendere che Vittorio Emanuele II fu sempre il garante personale dello Stato con interlocutori e in un’epoca nella quale era normale che i ministri cambiassero mentre le decisioni supreme spettavano, sempre e comunque, ad imperatori re. Nella primavera del 1859 Garibaldi venne posto a capo del corpo dei Cacciatori delle Alpi con la nomina a generale dell’esercito. Dopo qualche mese, visto l’atteggiamento di Napoleone III incline alla pace e visto anche che comunque la Lombardia era acquisita, fu Vittorio Emanuele – non Cavour – a capire che il regno di Sardegna non poteva continuare da solo la guerra contro l’Austria e a sottoscrivere l’armistizio di Villafranca “per quello che lo riguardava”. Non tradiva una causa, l’unificazione italiana, che a quel momento non aveva ancora sposato e che comunque non rientrava, in quel frangente, negli obiettivi di nessuno dei suoi ministri, a cominciare da Cavour. Per il piccolo informe neo regno sardo-lombardo ancora nascente il governo La Marmora-Rattazzi in pochi mesi varò leggi che poi vennero estese a quello d’Italia e durarono decenni: la riforma della scuola di Gabrio Casati e quella di comuni e province di Urbano Rattazzi. Il re fu però soprattutto il cardine di una politica estera imperniata su rapporti personali. Vittorio Emanuele II non esitò a valersi anche di reti cospirative. L’azione dei commissari e dei dittatori nei ducati padani e poi nel granducato di Toscana si valsero della fiducia del sovrano. “Italia e Vittorio Emanuele” era e rimase l’insegna della Società Nazionale di Daniele Manin, Giorgio Pallavicino Trivulzio, Giuseppe La Farina e soprattutto di Giuseppe Garibaldi, che appena sbarcato a in Sicilia si proclamò dittatore in suo nome. Vittorio Emanuele deluse Francesco Crispi e i tanti che alla proclamazione del regno (17 marzo 1861) volevano che mutasse l’ordinale Secondo in Primo perché re della Nuova Italia. Aveva le sue ragioni. Il cambio comportava una cesura. Avrebbe conferito al Parlamento un ruolo costituente almeno per fissare un prima e un poi. Sennonché il Senato era e rimase di nomina regia. La Camera era stata eletta sulla base delle leggi vigenti nel regno di Sardegna. Infine il re era e rimase “per grazia di Dio” a norma dello Statuto, legge “fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia”. Solo nella firma delle leggi il re figurò “per grazia di Dio e volontà della nazione”. Per divenire re d’Italia Vittorio Emanuele II debellò sovrani e annesse terre dello Stato Pontificio: le Legazioni dell’Emilia Romagna prima, Marche e Umbria poi. Il conflitto però non rimase circoscritto alla sfera del potere temporale. Investì il primato della Chiesa nella vita pubblica. Da scontro con il papa-re divenne contesa con il Pontefice. Vittorio Emanuele II era e fu sempre figlio devoto della Chiesa cattolica, ma non poté impedire che il governo imboccasse la strada della laicizzazione della società. Sin dalle leggi anti ecclesiastiche del 1850 (le “leggi Siccardi”) il sovrano entrò in conflitto con Pio IX, che rispose con le armi in suo possesso: non esitò a scomunicare il re e i suoi ministri. Alle condanne per motivi politici si aggiunsero quelle per la sua condotta disinvolta. Proprio perché re, doveva essere esempio o persino di modello di specchiata moralità per i sudditi; come la generalità dei maschi della Casa non se ne dette alcun pensiero. Malgrado la scomunica papale, il re a volte assecondò e a volte non ostacolò l’azione di governi che mirarono a risolvere la questione romana in maniera sbrigativa: lasciando briglia sciolta, almeno in un primo tempo, e troppo a lungo, a iniziative militari. Fu il caso dei governi presieduti da Urbano Rattazzi nel 1862 e nel 1867. In entrambi i casi Garibaldi organizzò spedizioni militari per attaccare Roma e metter fine al potere temporale del Papa nella convinzione di avere l’avallo del sovrano e il tacito assenso del governo. Nel 1862 dallo sbarco a Palermo al suo passaggio in Calabria trascorsero quasi due mesi, durante i quali il generale proclamò in tutti i modi il suo proposito: “Roma o morte”. Il drammatico scontro sull’Aspromonte nacque dall’ambiguità e dall’illusione di lasciar porre ancora una volta l’Europa dinnanzi al “fatto compiuto”. Altrettanto avvenne nel 1867, con il tragico epilogo di Mentana. Entrambe le volte il governo del re dovette procedere all’arresto del generale rischiando di compromettere l’immagine di Vittorio Emanuele II sia dinnanzi ai democratici, sia agli occhi dei governi stranieri, indotti a considerare l’Italia come causa di crisi permanente anziché una garanzia di stabilità: l’opposto di quanto ci si era attesi dal riconoscimento del regno d’Italia. Nel settembre 1870 il governo Lanza-Sella ordinò l’assalto e l’espugnazione di Roma proprio per scongiurare il peggio e cioè un’insorgenza incontrollata e incontrollabile di garibaldini o, peggio, di mazziniani, che avrebbe causato l’intervento militare internazionale come nel 1849. Anziché coronamento dell’unità Roma rischiava di far da detonatore di un ventennio di contraddizioni. Perciò il governo s’affrettò a farvi celebrare il plebiscito che ne avallò l’annessione alla corona sabauda. Da quel momento Vittorio Emanuele II si trovò più alto e più solo. Il crollo di Napoleone III (sconfitto dai prussiani a Sedan, il 31 agosto e primo settembre 1870) e l’avvento della Terza Repubblica generò nuove ansie. L’Italia aveva bisogno di sicurezza e pace, specialmente con l’Impero d’Austria. La Triplice alleanza con Berlino e Vienna venne stipulata nel 1882, un anno dopo l’imposizione francese del protettorato sulla Tunisia. La Triplice Alleanza era però in nuce sin dal 1870, quando la proclamazione della Terza Repubblica francese alimentò i sogni repubblicani anche in Italia dove in tanti ripresero a cospirare contro la monarchia. Ancora una volta il re mise in gioco la Casa. Il secondogenito, Amedeo duca d’Aosta, accettò la corona di Spagna a conclusione di una complessa trama condotta in porto anche grazie a relazioni segrete dirette tra il sovrano e politici spagnoli eminenti quali il generale Prim, auspici alti dignitari massonici. Il regno di “don Amadeo Primero” durò poco più un anno. Fu però sufficiente a mostrare che Casa Savoia era ben inserita nel contesto europeo. Tra il 1873 e il 1875 Vittorio Emanuele II compì visite di Stato a Vienna e a Berlino e ne venne ricambiato. Morto Giuseppe Mazzini (1872), la Sinistra storica si separò nettamente dai repubblicani, le cui speranze ormai si affidavano solo a crisi interne gravissime che nessun patriota si augurava. Dal 1867 suoi autorevoli esponenti come Agostino Depretis e Michele Coppino avevano fatto parte del governo. Con l’avanzata nelle elezioni del 1874 la Sinistra risultò candidata a guidare il Paese. Le guerre per l’unità e l’indipendenza erano definitivamente alle spalle. Anche Garibaldi, l’antico condottiero della Rivoluzione, ora dedicava le residue forze a trasformare Roma in città moderna: argini del Tevere, un porto commerciale, un’ampia area industrializzata... Nel 1875 andò in visita al re, che lo accolse avendo a fianco il generale Giacomo Medici, l’eroe garibaldino di Villa del Vascello al Gianicolo. Nel marzo 1876 Vittorio Emanuele non esitò a conferire la presidenza del consiglio a Depretis. A giudizio dello storico Maturi quello fu “l’ultimo grande atto politico” di Vittorio Emanuele II. Il re provò che il Risorgimento era compiuto e l’Italia era unita. A conferma di ciò nel 1877 la Sinistra riorganizzò le proprie file: fissò i termini entro i quali dovevano contenersi le tenzoni parlamentari. Le possibili crisi di governo non avrebbero più investito le istituzioni. Il ricordo più commosso e penetrante del “padre della patria” venne confidato da Isacco Artom, antico segretario di Camillo Cavour, a Beniamino Manzone, un professore originario di Bra, nel Cuneese, chiamato a Roma nel 1895 per fondare e dirigere una rivista storica del Risorgimento italiano nell’imminenza del quarto di secolo da Porta Pia. Quel Venti Settembre 1895 vennero scoperti al Gianicolo il monumento di Giuseppe Garibaldi a cavallo e in piazza Cavour quello dello statista torinese. A Manzone, Artom ricordò che le relazioni tra il re e Cavour “pur troppo” non sempre erano state cordiali, ma il re non esitò mai a fare il primo passo per riconciliarsi, anche al prezzo delle “sue simpatie personali”. Aveva quell’alto senso dello Stato che troppo a lungo la storiografia ha sottaciuto. «La morte del Conte troncò pur troppo prematuramente quella provvidenziale collaborazione d’un grande Sovrano e d’un grande uomo di Stato, spettacolo così raro nella storia delle nazioni (...). Morto Cavour, Re Vittorio rimase la sola incarnazione dell’unità italiana. E’ giusto proclamarlo altamente (...) Egli non esitò mai a compiere arditamente la sua grande missione storica. Ricordo un’udienza che egli mi accordò al mio ritorno dalla Danimarca, dove ero stato suo inviato. Era l’epoca infelicissima seguita a Mentana. Mi accolse con grande affabilità. Nel cuor dell’estate, dall’aperta camicia, si scorgeva il suo fulvo petto leonino. Mi strinse con forza la mano e mi congedò dicendomi: Non dubitate, fra breve saremo a Roma!». Mantenne la parola e suo figlio Umberto I proclamo Roma “conquista intangibile”. Umberto I venne assassinato a Monza nel luglio 1900 da un complotto anarchico al terzo attentato in ventidue anni di regno. La svolta liberale guidata dal quasi ottantenne presidente del Consiglio, Giuseppe Saracco (1821-1907), era già avviata al punto che il governo, nonostante la drammatica circostanza, non ricorse ad alcuna misura repressiva speciale. Quasi quarant’anni dopo la propria fondazione, il regno era ormai solido. Aldo A. Mola aldoamola@alice.it 

Nei centocinquant’anni dalla proclamazione del regno, l’Italia ha vissuto tante prove, anche dure, difficili, amare. La sua unità ha retto e regge. Ha subito e subisce critiche, anche severe e talvolta ingenerose, ma nessuno Stato oggi ne mette in discussione la sovranità nell’ambito dei trattati sottoscritti dai suoi governi. L’Italia dunque c’è. I suoi confini politici non coincidono con quelli geografici. Ma questo vale per tutti i paesi del mondo, a cominciare da quelli d’Europa, che non sono frutto di colpi di righello su carte indicanti spazi indistinti ma frutto di processi millenari. La Repubblica non ha il limes raggiunto nel 1924 con l’annessione di Fiume ma neppure quell’acquisizione compensò mutilazioni alle quali l’Italia s’era rassegnata dal 1860, con la cessione alla Francia di Nizza e della valle Roia. Al di là delle rettifiche di frontiera imposte dal trattato di pace del 10 febbraio 1947 la realtà è chiara: l’Italia è uno Stato unitario, indipendente e sovrano come può esserlo nel quadro della comunità internazionale fatta di alleanze, trattati, vincoli, devoluzioni, regolamenti e vincoli. Tutto ciò conferma la grandiosità dell’opera realizzata da o nel nome di Vittorio Emanuele II di Savoia, ultimo sovrano di Sardegna, primo capo di Stato della Nuova Italia. Com’è scritto sulla sua tomba al Pantheon, fu e rimane il “padre della patria”. Quando venne pensata, quella formula sembrò timida. Non si volle scrivere “Re d’Italia” per non mettere sale sulle ferite di papa Pio IX, che non riconosceva la debellatio dello Stato Pontificio. A distanza di tempo, cancellati i sorrisi ironici e constatato quanto sia complesso tenere insieme il Paese, essa risulta più suggestiva e pregnante di ogni altra.