Varie, 16 dicembre 2010
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Moyo Dambisa
• Lusaka (Zambia) 1969. Economista • «[...] Nata e cresciuta nello Zambia, dottorato in economia a Oxford e master ad Harvard, economista prima alla Banca Mondiale e poi a Goldman Sachs [...] ha fatto dei mali dell’Africa una sfida personale e impegna tutte le sue competenze alla ricerca di una soluzione duratura. E nel suo libro “Dead Aid” [...] tradotto da Rizzoli in “La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo” rovescia le posizioni del Live Aid. [...] “I Paesi africani continuano a essere in fondo negli indici di trasparenza e i peggiori per corruzione. Ma quali soldi rubano? Quelli degli aiuti. E per questo si fanno la guerra”. La sua tesi è che il sistema degli aiuti uccida l’economia, tagli le gambe all’imprenditoria locale e consenta ai governi di abdicare alle proprie responsabilità. “In Occidente i cittadini pagano le tasse e ottengono in cambio dal governo da loro eletto, istruzione, sanità e previdenza sociale. Il problema è che in Africa questi servizi sono forniti dall’economia internazionale e i governi si preoccupano più dei donatori che dei propri cittadini” [...]» (Antonia Jacchia, “Corriere della Sera” 12/5/2010) • «[...] sognava di fare la hostess, suo nonno lavorava in miniera, i suoi genitori tra i primi laureati all’università di Lusaka vanno all’estero nei primi Anni ’70 in cerca di opportunità che a casa non ci sono. Dambisa studia, vince borse di studio tra Harvard e Oxford, lavora per sette anni alla banca d’affari Goldman Sachs e poi alla World Bank. Nel 2009 scrive un libro, Dead Aid, che diventa un caso: basta aiuti caritatevoli dall’estero — che alimentano corruzione e dipendenza — l’Africa ha bisogno di reggersi sulle proprie gambe. E semmai di investimenti, come quelli che fanno i cinesi però, che sfruttano le risorse naturali senza troppe menate sui diritti umani ma nello stesso tempo costruiscono infrastrutture, aprono strade, innalzano dighe. Insomma più business e meno paternalismo, dice Dambisa, più ingegneri e meno rockstar. [...]» (Michele Farina, “Corriere della Sera” 30/9/2009).