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 2010  dicembre 16 Giovedì calendario

MAZZANTINI BELLEZZE E SOMARI

Nel diabolico trapasso tra arte e vita, la ragazza di Dublino del ’61 abile a ingannare l’anagrafe e inseguire pensieri cavalcando riflessioni profonde intervallate a timori adolescenziali: “La luce del suo registratore mi provoca ansia, posso spostarlo?”, ha saputo rimanere in equilibrio. In una via fiabesca di Roma, senza punti cardinali o obblighi che non siano la sua tribù allargata, Margaret Mazzantini, quattro figli, ex attrice di teatro che cambiando mestiere e palcoscenico ha incontrato l’alchimia per vendere copie a milioni dei suoi libri, si presta al supplizio dell’intervista. Si appella all’ironia: “Non amo parlare di me stessa, sono tra le persone meno mondane che conosco”, muove le mani al ritmo del ragionamento, beve caffè circondata da quadri e fotografie. Piazze, mariti, viaggi. Occhi azzurrissimi, bellezza obliqua, inquietante velocità dialettica, giardini della memoria che a un tratto aprono cancelli sul passato . Infanzia apolide tra l’Irlanda, Tivoli e la Spagna. Il sogno della fuga in un angolo: “Teorizzavo la salvezza personale in una piccola città o in campagna. Ho fallito, forse è tardi per evadere”. Per consolarsi e tacitare il rimpianto, ha ambientato tra i filari di San Casciano una commedia atipica, spiritosa, distante dai modelli contemporanei e vicinissima agli scambi fulminanti di una stagione del cinema italiano scomparsa per consunzione. “La bellezza del Somaro” (Warner, nei cinema da venerdì) sceneggiato da Mazzantini con il marito Sergio Castellitto alla regia e un gruppo di attori eterogenei, sincreticamente funzionali al progetto (Enzo Jannacci, Marco Giallini, Barbara Boubolova, Laura Morante) è la fotografia di un disastro generazionale e l’istantanea di una passione irrealizzabile. “È stato faticoso , divertente, confuso, esaltante. C’era la vita dentro il set, spero si avverta”.
Mazzantini com’è viaggiare dal dramma al divertimento?
Il mio ultimo libro (Venuto al mondo, ndr) raccontava le ombre di Sarajevo. Lavorarci mi ha richiesto coraggio e calma. Documentazione, dolore, lucidità di fronte a un orrore che dai nostri divani non avevamo voluto osservare da vicino. Desideravo inventare un film lieve.
La lezione del Somaro?
Rimettersi in gioco è più interessante di qualunque abitudine. Il film è la storia di un ingresso inatteso.
Spieghi.
C’è un anziano signore che prova, ricambiato, un sentimento verso una ragazza di 60 anni più giovane. Un vecchio che entra in una famiglia progressista, riformista, eco-solidale ed è considerato un alieno.
Perché?
Oggi si può essere neri, gay, rivoluzionari ma non si può sbandierare la vecchiaia. L’età avanzata è uno scandalo e i settantenni un problema.
I capelli bianchi sono quelli di Jannacci.
Enzo è stato un soldato. Lo abbiamo protetto e amato. Cercavamo un 75enne che fosse gagliardo. Uno di cui si potesse temere, dire, come accade: “Questo sembra Umberto D., ma ti si batte tutta la famiglia badante compresa”.
Nel film, i 50enni non fanno una gran figura.
Cazzoni, irrisolti, inerti davanti a qualunque responsabilità. I figli lo capiscono e sono spesso migliori di loro.
Anche se impegnano.
Il sottotema è quello dei figli. A farsi dominare da pretese e sensi di colpa, basta un attimo. Come suggerisce soavemente Castellitto a Morante parlando della figlia Rosa: “Sono sedici anni che scassa il cazzo, Rosina tua”.
(Ride)
Esemplare.
In una commedia tutto è sopra le righe. Le maschere esasperano caratteri dietro ai quali si celano verità sostanziali. La scrittura ha senso solo se è dinamitarda. Se incrina le certezze, ribalta gli assiomi, indaga sullo scandalo, mette in luce le anomalie.
Anche la sua?
Il vero tempo della scrittura è quello investito studiando gli altri. Io ho una grande fortuna, vivere nel mondo. Mi sbatto, mi confronto con la realtà, faccio la spesa.
I suoi temi?
Scrivo delle occasioni mancate, degli obiettivi puntati senza lucidità, dell’amore immaginato in un luogo, mentre pulsava in un’altra sfera lontana.
Fino all’inizio degli anni ‘90, il suo mestiere era un altro.
Ci sono vocazioni che nascono da una negazione totale. Io scrittrice non volevo diventare. Era una nebulosa, un rischio. Però del successo in senso stretto, mi fregava poco.
Non ci credo.
Mica penserà che la vita sia un numero su un conto in banca? Io di stare con il culo piantato sulla sedia non volevo saperne cercavo il palco, i costumi, la finzione.
Era brava, dicono.
A 20 anni esordii con Ifigenia di Goethe a Vicenza. La nuova Eleonora Duse, dissero. Potevo montarmi la testa, ma ho un Dna incompatibile con la stupidità.
Per quale motivo abbandonò le scene?
Mi innamorai di Sergio. Una passione bruciante. Lui stava partendo per Parigi, recitava in un film con Delon. Così rinunciai a due tournée teatrali. Eravamo all’inizio, non volevo lasciarlo.
Cosa accadde?
Lui mi regalò un piccolo quaderno per raccogliere i miei pensieri. Sulla copertina c’era Indiana Jones.
Avventuroso.
Il quaderno ce l’ho ancora. Al residence Orion di Parigi il tempo dell’attesa non trascorreva mai. Non sapevo che fare, così iniziai a riempire le pagine e lentamente, assistetti al miracolo.
Nacque il suo primo libro, Il catino di Zinco.
Un prodigio. Non sono mai stata un’ambiziosa, non sorveglio gli altri scrittori, non partecipo al circo dell’invidia che è la seconda religione ufficiale della Nazione. In questo Paese il successo non viene perdonato. Susanna Tamaro, anni fa, per Và dove ti porta il cuore subì un’aggressione insensata, violentissima.
Come cambia l’esistenza di un individuo che vende due milioni di copie?
Ma cosa vuole che cambi? Io ho quattro figli. Una banda scatenata: “Mamma ho fame”, mamma di qua, mamma di là. Anche se i ragazzi sono simpatici e non viziati, io li ammonisco : “In casa nostra per gli stronzi non c’è cittadinanza”. Trotto, bandisco il lamento e non mi compiaccio.
Non si nasconda.
Io non mi nascondo mai e mi metto a nudo, soprattutto quando scrivo. Trascorro un tempo infinito a parlare con gli altri. Il motore che mi tiene in piedi è la curiosità. Comunque “Non ti muovere” partì piano. Le racconto una cosa.
Prego.
Scoprire di avere un esercito di lettori è stato sorprendente. Entravamo in libreria con Sergio e lui tirava fuori il mio volume senza pudore. Lo sventolava, faceva pubblicità neanche troppo occulta. Un ragazzino.
Si sente forte oggi?
Io sono fragilissima e potente. Se rifletto troppo su una cosa, la faccio male. L’ho sempre saputo. La pagina bianca è il confronto con l’ignoto e so che la stessa storia può essere una telenovela di quarta o Madame Bovary.
Potrebbe cambiare ancora sponda?
Anche se scrivere in qualche modo ti allontana dal mondo e a volte galleggi senza fiato, credo di no. Bisogna controllarsi. Rincorrere l’equilibrio. Limitare la prostrazione e confinare l’esaltazione. Scavare, sprofondare, cercare a fondo per magari non trovare nulla. Questo faccio, consapevole di un talento che è anche la mia dannazione.
Tra un suo romanzo e l’altro passano molti anni.
Io sono una narratrice di storie. Se mancano, è meglio tacere. Poi è un po’ anche colpa mia. Sono una sciagurata, ho tanti libri non finiti, iniziati e poi acca-tastati in un angolo. Penso: “Ma se non frega nulla a me, come possono entusiasmare gli altri?”.
E’ modesta?
Tutt’altro, detesto l’ipocrisia, apprezzo le intelligenze rapide e non mi sento buona. Sono un fiume in piena, senza argini e non sempre coltivo la tolleranza come virtù. Però le confesso una cosa.
Siamo qui.
Io mi sento sempre una miserabile e ogni mattina devo rialzarmi, tirare su la testa, guardare al contesto convincendomi che nell’agone posso stare anche io.
(sorride)
Anche suo padre Carlo, penna superba (A cercar la bella morte ndr) e reduce dell’Rsi scrisse. Che rapporto ha avuto con lui?
Vivere con un uomo che per tutta la vita si è sentito un reietto non è stato semplice. A tratti
mi ha provocato sofferenza.
Che carattere aveva?
Papà era onesto, geniale, pazzoide, generoso, ombroso, eccentrico ed entusiasta. Una contraddizione vivente. Viveva isolato, con un golf bucato, inseguendo labari, contesti e ossessioni legate alla sua giovinezza. Quando vedo i documentari del Luce sulla parabola fascista, mi sento male.
Gli ha voluto bene?
Molto, ma di un amore indefinibile. E’ stato un grande scrittore, ma non posso dire cosa abbia rappresentato esattamente per noi. Per Carlo (a volte si distrae, alza gli occhi come per cercarlo, lo chiama così ndr) provavo una tenerezza infinita. Eravamo quattro figli e una madre, senza una lira, isolati in campagna tra polli, olive, galline. Quando ci vedeva studiare interveniva: “Basta con questi lussi, venitemi ad aiutare”. Papà era redattore semplice alla Treccani. Piuttosto che chiedere un lavoro migliore, domandare, prostrarsi, si sarebbe fatto uccidere.
Mai litigato per la politica?
Abbiamo scazzato sempre. All’epoca dei miei quindici anni, ero affascinata dagli extraparlamentari. Lui veniva ad annusare per il puro gusto della polemica. Ma dell’Msi e della contemporaneità non gli importava nulla. Andò persino, commosso, al funerale di Berlinguer.
Eresia.
Era un anarchico iconoclasta. Negli ultimi anni di vita, pur essendo ancora fisicamente giovanile, voleva demolire tutto. Lo calmava Mamma Anne, una pittrice molto brava. Uccelli, gabbiani, libertà. Anche se papà non ha accettato serenamente che io scrivessi, quando è morto, mi ha lasciato la sua biblioteca. Era fatto così. Regole e sorprese. Meglio se inaspettate.