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 2010  dicembre 14 Martedì calendario

FALCE E FISCHIETTO

«Ehi portiere, preparati alla battaglia!/ Sei di guardia alla porta!/ Immagina che dietro di te/ Corra la linea di confine!». Ecco la strofa centrale della Marcia dello Sport, canzone ancora popolarissima in Russia diventata famosa nel 1937 come colonna sonora del film Il portiere della Repubblica. Una pellicola propagandista che contrapponeva gli atleti sovietici, virtuosi e socialisti, ai Bufali neri, fascisti e corrotti, chiaro ritratto degli sportivi nazisti.
Una testimonianza del complesso rapporto del regime comunista con il gioco del calcio, analizzato da Mario Alessandro Curletto, professore di lingua e letteratura russa all’Università di Pavia, nel saggio I piedi dei Soviet. Il futból dalla rivoluzione d’Ottobre alla morte di Stalin (Il Nuovo Melangolo, pp. 244, euro 11).
Il calcio era già molto amato dal popolo durante il regime degli zar, ma la conquista del potere da parte del Partito Comunista mise a rischio la sua sopravvivenza perché per i puristi della rivoluzione il football, nato in Gran Bretagna, doveva essere considerato uno sport capitalista, in grado di corrompere i valori su cui si sarebbe fondata la nuova società. «Gli ideologi della cultura proletaria», spiega Curletto, «individuavano in quella pratica sportiva inventata dalla borghesia inglese tratti intrinsecamente diseducativi: il dribbling e le finte, per esempio, non erano altro che bassi inganni».
Il dovere di un compagno
Accuse a cui i moderati rispondevano a tono: il buon compagno doveva imparare a giocare a calcio non per piacere personale, ma per servire la Patria. «Si tratta di un gioco collettivo, di squadra, praticato all’aria aperta che educa lo spirito di gruppo, la fermezza, la rapidità di decisione, la determinazione e la destrezza», spiegava un articolo pubblicato nel 1924. «E non è certo per caso, ma
perché possiede tutte le qualità sopraelencate, che il calcio è stato ufficialmente introdotto come pratica addestrativa obbligatoria nell’Armata Rossa».
Col tempo, il realismo prese il posto delle dispute ideologiche: il calcio, amato soprattutto dagli operai, poteva trasformarsi in un efficace strumento di propaganda. Una considerazione che però non permise ai sovietici di infrangere l’ultimo tabù: fino al crollo dell’Urss, gli sportivi russi vennero sempre considerati dilettanti e non professionisti. Un escamotage necessario per poterli pagare meno dei loro avversari occidentali.
Fu la Seconda Guerra Mondiale a dimostrare che il Cremlino aveva fatto la scel-
ta giusta. Sotto la minaccia di Hitler, il calcio si trasformò in uno straordinario collante per il popolo, come dimostra la scelta di organizzare proprio una partita di football per risollevare il morale di soldati e cittadini intrappolati nella Leningrado assediata dalle truppe tedesche. L’idea nacque dopo che, nell’aprile del 1942, l’esercito nazista aveva diffuso una rivista illustrata intitolata “Leningrado è una città di morti”, ricca di fotografie di palazzi distrutti e cadaveri abbandonati in mezzo alle strade della vecchia capitale. La risposta sovietica arrivò il 6 maggio, quando in città si disputò una partita fra la Dinamo Leningrado e una rappresentativa della Flotta del Baltico, seguita da altri due incontri nei mesi successivi. Al match assistette anche
una troupe radiofonica incaricata di registrare urla e cori del pubblico per poi diffonderli lungo la linea del fronte: una prova incontestabile del fatto che gli abitanti di Leningrado non si erano arresi. Come scrisse il poeta Nikolaj Tichonov nel racconto Un siberiano sulla Neva: «Non c’erano casse, nessuno voleva vendere i biglietti, mancava qualunque tipo di controllo. Ma spettatori, tifosi e calciatori erano là, e quello che desideravano era una
gara vittoriosa». Per l’Urss, la fine della Se-
conda Guerra Mondiale sancì la fine dell’isolamento internazionale iniziato dopo la Rivoluzione d’Ottobre, e il nuovo status di super potenza mondiale del Paese influì anche nel campo sportivo. Se, prima del 1945, la nazionale di calcio russa aveva potuto disputare solo amichevoli non ufficiali, nel 1946 venne ammessa nella FIFA e nel 1952 partecipò per la prima volta alle Olimpiadi.
Ma quella che doveva essere l’occasione ideale per mostrare al mondo i successi del socialismo si trasformò in una disfatta. Il tecnico della squadra, Boris Arka’dev, subì continue pressioni politiche sui nomi dei titolari e, secondo alcune testimonianze, ai calciatori venne chiesto di firmare una lettera nella quale si impegnavano formalmente a vincere la medaglia d’oro.
Scontro fra dittature
La tensione raggiunse il culmine quando l’Urss affrontò la nazionale jugoslava agli ottavi di finale: battere gli jugoslavi avrebbe permesso di dare una lezione a Tito, il comunista eretico che si era ribellato a Mosca. La prima partita fra le due formazioni finì con un pareggio, e fu necessario ripetere l’incontro per trovare il vincitore. Fra i due match, i russi subirono pressioni ingestibili, culminate con l’arrivo di un telegramma di Stalin in cui si spiegava che la partita: «assumeva il significato di un atto politico dello Stato». Stanchi e nervosi, i sovietici persero tre a uno a uno contro i “titini”.
Al loro rientro, iniziarono le punizioni. Alcuni giocatori vennero sospesi per un anno per aver danneggiato l’immagine dello Stato, mentre il CDSA, il club allenato da Arka’dev, venne sciolto. Probabilmente per ordine di Lavrentij Berija, onnipotente capo della polizia segreta, che sfruttò l’occasione per eliminare la squadra più forte del campionato e aiutare la Dinamo Mosca, la sua squadra del cuore.